DANIELE TIRELLI
Intervista al presidente di Popai Italy, sul suo nuovo libro “Retail Experience in Usa”

Dopo “Retail Excellence”, pubblicato con Ops, Daniele Tirelli, presidente di Popai Italy, esce con “Retail Experience in Usa”, pubblicato da Franco Angeli nella collana Manuali. Abbiamo rivolto alcune domande all’autore per capire qual è il significato di questa seconda opera.

Quale obiettivo che si è posto con questa seconda rassegna sui migliori punti di vendita americani?
Mi auguro che “Retail Experience” sia il secondo di una serie di saggi sull’argomento. Il mondo del commercio in tutti i suoi format e in tutte le sue categorie, infatti, è un universo senza confini, la cui esplorazione non può mai giungere a una conclusione. In “Retail Experience” ho cercato di trasferire ai lettori il senso di tante esperienze vissute viaggiando per 44 stati americani e cercando di vivere la vita quotidiana degli shopper di quel paese. Naturalmente, ciò ha significato intaccare solo la superficie di un fenomeno enormemente complesso. Tuttavia, credo che questo risponda a un metodo coerente e avanzato per studiare e capire le logiche commerciali.
In che senso ritiene di aver utilizzato un metodo coerente e avanzato? In che cosa si distingue questo suo sforzo da altri analoghi?
Esistono tantissime opere pregevoli in forma di atlanti o di raccolte fotografiche centrate sull’architettura e lo store design. Nel mio caso, invece, ogni insegna è stata analizzata con un approccio socio-antropologico, nel senso che ho cercato, partendo dalla storia imprenditoriale che ne è alla base, di comprenderne e spiegarne il posizionamento di mercato e le ragioni di un successo consistente di pubblico. Ho cercato, per quanto possibile, di raccordare gli aspetti funzionali ed estetici di ogni punto di vendita per evidenziarne l’unicità nel loro genere e ciò che sono in grado di trasmettere alla propria clientela.
Ma con quali criteri ha scelto le insegne che figurano nel libro?
Due sono i criteri. Il primo mi è stato “imposto” dai miei colleghi di Popai, i quali volevano che mi togliessi l’etichetta di “alimentarista”, ovvero di osservatore dei soli supermercati. Il secondo è stato determinato dal tratto comune a queste insegne: cioè la loro capacità eccezionale di sviluppare una strategia e una pratica di vendita al di fuori del comune. Pertanto, nel libro figurano realtà lontanissime tra loro che certamente l’“accademia” non accomunerebbe mai. Mi riferisco cioè a un caso macro come il Mall of America con i suoi 520 store e, all’altro estremo, a un umile chiosco come Randy’s Donuts, che da 50 anni vende soltanto ciambelline glassate, ma che è divenuto un simbolo di Los Angeles. Inoltre, descrivo gli shopping mall di Las Vegas da un lato e un mercato centrale come il Reading Terminal di Philadelphia dall’altro. In questo modo ho fornito alcune coordinate per orientare il lettore nella moltitudine di formati che si possono trovare negli Stati Uniti.
Non c’è il rischio di un’eccessiva eterogeneità che può disorientare il lettore?
Probabilmente sì, ma al lettore non propongo l’illusione di capire con poco sforzo e una facile lettura quello che ancora oggi mi pare quasi indecifrabile, nonostante mesi passati negli Stati Uniti e tanti chilometri percorsi. Lo studio del retail equivale a quello della botanica o della zoologia. Trovo ridicola la pretesa di parlarne senza farne esperienza diretta, un po’ come Salgari che scriveva dell’India senza averla mai visitata. Dunque non si può parlare di kitsch del Caesars Forum o del Venetian di Las Vegas se non si entra nello spirito che porta ogni anno decine di milioni di persone entusiaste a visitarli, in barba alle critiche dei “geremia” e degli “arbitri del gusto” (anche nostrani). Il punto di vendita non è mai slegato dalla folla umana che lo frequenta e, dato che io porto rispetto alla cosiddetta “cultura popolare”, non emetto opinioni, ma cerco di spiegare le ragioni per le quali i punti di vendita che descrivo sono, ciascuno nel loro genere, eccezionali. E non solo. Sono anche degli archetipi dai quali trarre ispirazione per sperimentare, anche in Italia, nuovi servizi e nuove estetiche in grado di rompere il conformismo generalizzato che nessuno può onestamente negare.

Andrea Demodena

Dopo la frequenza di Economia e commercio in Cattolica, si iscrive a Lettere Moderne, presso l’Università Statale di Milano, laureandosi a pieni voti con una tesi in storia dell’arte contemporanea. Come giornalista ha collaborato con Juliet, Art Show, Tecniche Nuove, Condé Nast, Il Secolo XIX, Il Sole 24Ore. Dal 2000 si occupa di marketing e promozioni. Dal 2014 è direttore di Promotion.