Tra gli archetipi più rilevanti degli store format contemporanei va sicuramente incluso AllSaints Spitalfields. La sua presenza all’interno dei mall più lussuosi di varie nazioni suscita, sul piano dell’antropologia commerciale, interessanti questioni d’ordine psicologico ed estetico. Questo retailer britannico sembrerebbe infatti diametralmente antitetico alla scelta stilistica degli ambienti che lo ospitano: dall’Aventura Mall (Florida) all shopping mall del Cosmopolitan di Las Vegas. Si potrebbe infatti pensare che la sua presenza in Portobello Road (Londra) sia quasi connaturata alla polverosa e misteriosa atmosfera del luogo dedicato alle più disparate anticaglie. Viceversa, la dissonanza che crea all’interno di strutture che fanno della luxury mystique la loro più evidente e sfacciata proposta è certamente fonte di interrogativi circa l’attuale cultura popolare e giovanile in particolare.
AllSaints annovera una storia turbolenta e non priva di risvolti drammatici. Nacque da una grande intuizione artistica del suo fondatore Stuart Trevor, che propose la commistione tra un ambiente protoindustriale volutamente “shabby” e una linea di abbigliamento ultraminimalista. Si trattò di una scelta che diede luogo non solo a una crescita accelerata delle vendite, ma anche alla creazione di una grande fedeltà (per non dire culto) del suo brand. Dal 1994 in poi questo punto di vendita di abbigliamento maschile e femminile e di accessori estese quindi la sua rete a 35 department store e a 65 stand alone store in Gran Bretagna e in vari paesi europei, nonché nelle grandi città degli Usa. Nonostante il cambio generazionale dai tempi iniziali e pur nella sua peculiarità, ciò che stupisce è l’ampia e crescente schiera di ammiratori e di potenziali clienti, che si estende su scala internazionale. La sua notorietà pertanto è molto diffusa anche tra il pubblico giovanile italiano, che include questo store tra le mete turistiche dei propri viaggi all’estero.
Il nome dell’insegna deriva da una via, la All Saints Road di Londra: un luogo mitico per le avanguardie musicali e stilistiche anglosassoni degli anni ’60. Ciò rende ancor più strana la presa sul pubblico giovanile, i cui gusti musicali sono radicalmente cambiati e ormai lontani da quelli originali. Sia come sia, il successo iniziale rese AllSaints oggetto dell’interesse predatorio di alcune istituzioni finanziarie che, nella persona di Kevin Stanford, ne acquisirono la proprietà e le imposero una svolta strategica a partire dal 2005. Lo sviluppo accelerato e avventuroso nel continente americano della giovane catena, però, l’avrebbe condotta purtroppo, nel 2010, in una situazione drammatica e sintetizzabile in una perdita di 53 milioni di sterline. Senza il salvataggio operato dalla Lion Capital, questo marchio sarebbe pertanto giunto alla fine del suo percorso. Come capita invece, a volte, nella storia del business quest’intervento diede ad AllSaints nuova vita e una propulsione.
A latere di queste burrascose vicende, l’interesse per questa azienda caratterizzata da un indimenticabile look gotico-vittoriano resta notevole e problematico. Non v’è dubbio alcuno, infatti, che AllSaints costituisca un riferimento importante per la sociologia e per l’estetica degli odierni consumi. Le ragioni sono varie. Colpisce in primo luogo e soprattutto la coerenza assoluta con cui declina la propria offerta. Paul McAdam, il chief executive di AllSaints North America, infatti, ebbe a dire. “We don’t tailor our offering for any specific store or population.”
L’ambiente protoindustriale che riproduce al suo interno e a cui si riferisce certamente ignorava i vantaggi dell’informatica e della robotica e piegava l’uomo al lavoro alienato descritto dalla letteratura realistica e romantica del 19° secolo. AllSaints ricostruisce questo mondo per frammenti in una propria struttura inimitabile. Ricrea un mondo salvato, ma inesorabilmente morto, che rimanda alle origini di prodotti che lo abitano dimessamente. In questo senso il capo d’abbigliamento, la scarpa, pur essendo frutto delle più moderne tecnologie, si congiungono, attraverso la loro esposizione, alle radici lontane e dolenti di un proletariato urbano legato alla macchina industriale. L’atmosfera sembra alludere pertanto a una sorta d’incubo marxiano ricorrente e sintetizzato da un intreccio carico di rimandi e di oscure suggestioni. Difficile estrarre e descrivere le sensazioni inesprimibili della sua clientela (generalmente abbiente e consumisticamente viziata), la quale probabilmente matura da questo particolare store design un costrutto logico-estetico puramente simbolico e non verbalizzabile.
L’interpretazione degli stilemi e dell’organizzazione spaziale ed espositiva di Allsaints risulta in altre parole altamente soggettiva. Ognuno vi coglie qualcosa che percepisce attraverso la psicologia del profondo. Per chi scrive l’impronta principale è l’evocazione di una morte materica angosciosa e decadente. Il recupero di macchinari spesso enigmatici circa il loro utilizzo originario (pressatura, intaglio, cucitura ecc.) dà luogo a una presenza incombente che abita lo spazio, evocando tratti del realismo sociale ottocentesco, appunto. In questo senso il tutto sembrerebbe divenire un pretesto culturale per riproporre una critica alla gerarchia capitalista attraverso l’eredità di questi oggetti produttori di fatica e alienazione. Anche il gioco della raccolta museale destrutturata di particolari reperti (ingranaggi e pezzi meccanici) sistemati ordinatamente sulle pareti quali fossero oggetti preziosi sopravvissuti a qualche oscura forza distruttiva contribuisce a rafforzare il concetto di fondo.
Queste sono solo alcune note interpretative di un design che punta a potenziare un assortimento di directional clothing. Esso è legato alla palette ristrettissima di mestissime cromie nere e bianche, terrose, rugginose e grigie. Sono colori che corrispondono a quelli dominanti dell’ambiente e delle sue componenti materiche: pareti a mattoni, travi di legno anticato, cemento… Questa nota stilistica è stata definita “British chic rock’n’roll” o “romanticamente post apocalittica”.
Il tutto sembra ripreso dagli (e fuso con) gli stilemi di specifiche correnti musicali, alcune delle quali nate appunto nel quartiere di Allsaints Road e ispirate principalmente allo steampunk e a un vago “renegade spirit”. Per altri versi è stato anche detto che questi luoghi d’acquisto rendono bene il concetto del glamour-meets-grunge che evoca le atmosfere dei nebbiosi slum londinesi teatro delle turbe ossessive di Sweeney Todd e di Jack the Ripper. All’insieme si aggiunga la ricorrenza della simbologia satanica a cui si ispira il cranio di caprone che costituisce il logo dell’insegna.
Un altro aspetto determinante di questa operazione di design è senza dubbio la strabiliante soluzione della barriera-vetrina che delimita spazi interni ed esterni. Essa chiude, anziché aprire, la vista della merce esposta. E questo risultato è ottenuto attraverso il metodico, maniacale allineamento di decine di vecchie macchine da cucire disposte in una sorta di mensolatura trasparente. La vetrina costituisce dunque la caratteristica di AllSaints, davvero irriproducibile da parte dei tanti competitor-imitatori che pescano anch’essi a piene mani nel main stream dell’archeoindustrialismo. Anche in questo caso, nascondere le proprie collezioni è una tecnica di marketing-at-retail molto peculiare consentita ai marchi davvero forti. È una soluzione che induce il cliente a immaginare quel che può esserci dietro la vetrina che, in questo caso “makes you want to enter the store”, come affermano gli strateghi dell’azienda.
Restano infine da concettualizzare le ragioni per cui si può conciliare un simile approccio con il clima solare, euforico, positivo che impronta i siti commerciali di Las Vegas, di Miami o di Chicago. Se si prende un luogo come il Cosmopolitan di Las Vegas, appunto, che ostenta un lusso sfacciato del tutto indifferente al rischio del kitsch più ostentato, questo connubio paradossale con l’“ugly e creepy” di AllSaints è stridente, ma non più di tanto in fondo. Siamo di fronte a un altro caso applicativo dell’odierna psicologia dei giovani benestanti, che vogliono far proprie anche le emozioni di una finta miseria, di un minimalismo usa-e-getta a cui non sono perennemente costretti come l’umanità ottocentesca di cui copiano l’estetica. È il piacere di un Bungee Jumping sociale che li tuffa nel mistero della privazione e dello squallore di un lavoro alienante che si guardano bene dal praticare, sapendo che il ritorno alla smemorata felicità consumistica del tutto e del troppo è sempre garantito.