Oltre 10 milioni di turisti invadono ogni anno la cittadina del Tennessee, dove si fondono teatri, distillerie, siti storici, musei, parchi divertimento, minigolf, piste da go-kart, comunità autoctone, e negozi di prodotti artigianali
Alle spalle, i maestosi silenzi delle Great Smoky Mountains. Davanti la lunga, serpeggiante, verde canopia della Parkway che scende verso il Tennessee. E all’improvviso, la “surreale”, chiassosa, frenetica strip commerciale di Gatlinburg. Non più le inquietanti, solitarie atmosfere “hillbilly” delle sperdute cittadine minerarie di montagna, fondate secoli fa da rudi highlander scozzesi, ma l’impatto con lo sfacciato e “volgare” (ma non per noi!) consumismo americano che dalla boom-town di Pigeon Forge è risalito fino al confine di stato.
Gatlinburg, avamposto solitario strappato alla foresta da William Ogle all’alba dell’Ottocento, dispiega gli stereotipi della “Southern way of life” e dei suoi piaceri: il fascino della “wilderness”, la musica, tanto cibo e ancor più “moonshine whiskey”, un tempo diabolica mistura distillata “al chiaro di luna”, nella notte del Proibizionismo. Oggi, al contrario, il moonshine è il punto d’orgoglio locale, declinato in una pletora di aromi e offerto nelle “ole distilleries” da mattina a sera, quasi fosse limonata.
Area di caccia e di passaggio per gli indomiti Cherokee, Gatlinburg trovò le origini in una baracca di legno edificata da Ogle per trafficare con quegli indiani. Poi, stanco della solitudine, egli scelse di trasferirvi la famiglia dal South Carolina, dove, abbandonato dalla fortuna, soccombette alla malaria. La sua famiglia allargata, però, completò il viaggio incompiuto di Ogle: era il 1806, e fu l’avvio della colonizzazione di Gatlinburg irrobustita dai veterani della Guerra Civile.
Oggi Gatlinburg è radicalmente diversa. Entro i suoi confini prosperano 4.000 abitanti dediti all’accoglienza di oltre 10 milioni di turisti ogni anno. Immersa in una riserva naturale di struggente bellezza che i vacanzieri ammirano dallo Space Needle, un belvedere alto 124 metri, la città gioca sul connubio di un paesaggio senza tempo con il divertimento più sfacciato. Teatri, distillerie, siti storici, musei, parchi divertimento, minigolf, piste da go-kart, comunità autoctone, negozi di prodotti artigianali e folkloristiche “stables” si fondono in una miscela godereccia che esteti e intellettuali “highbrow” trovano indigesta quanto il moonshine.
Gatlinburg è infatti una delle tante espressioni “blasfeme” del concetto di tempo libero delle classi medie americane, improntato a quell’evasione gaudente e spensierata che altri luoghi mitici come Las Vegas, Myrtle Beach o Atlantic City hanno espanso su grande scala. Il concetto si materializza addentrandosi nell’area abitata: un vortice di colori, insegne, odori, sculture, richiami… il tutto sotto una coltre di musica country e bluegrass.
La sequenza decorativa della Parkway 441, che taglia in due l’abitato per poi spingersi verso Knoxville, è l’invito ammiccante a fermarsi per chi transita. È il conforto consumista di chi ha magari voluto rivivere un (tranquillo) “week-end di paura” e l’angosciosa sensazione del contatto con la natura e l’umanità selvaggia delle Appalachian Mountains. Così i passanti si accalcano dentro la selva di richiami, di suggestioni pubblicitarie e commerciali che campeggiano ai lati della strada, assieme ai negozietti country, le abitazioni folkloristiche e i quick restaurant. L’enunciazione programmatica del luogo è la riproduzione maniacalmente curata, ironica e citazionista, dei tipici riferimenti iconografici americani. Ne consegue un’estetica che non è seriamente intenzionata a replicare pedissequamente le proprie fonti d’ispirazione. Semmai le omaggia con leggero disincanto, per dimenticarle presto e senza nostalgia. E così facendo ripropone un tratto caratteristico della cultura popolare prevalente.
Nello specifico, l’espediente della decorazione commerciale, a Gatlinburg, ricorre anche a figure aggettanti che, secondo ben noti stilemi barocchi, si staccano dal fondo per catturare l’attenzione dei passanti. Dunque, l’intramontabile gusto pop di questo paese, parte dal poco o dal nulla del signage e degli onnipresenti bassorilievi a colori vivaci per creare un tutto coerente e sensato. Chiara è l’intenzione di connotare visivamente la strip con una trama coreografica spontanea, ma complessa, di cui l’eccesso e l’enfasi decorativa sono la principale cifra stilistica. L’intento è suscitare, mediante tecniche collaudate, una sensazione di stupore e di piacevole disorientamento. Il flusso perenne di turisti esposto a quest’esondazione segnica completata da un onnipresente tappeto sonoro non può fare a meno di coinvolgere dunque anche il più distaccato degli osservatori. È la giocosa immagine d’insieme della successione orizzontale di vetrine da cui deriva un’elencazione simbolica e riassuntiva del consumismo americano.
Gatlinburg, incurante dei pregiudizi estetici ampollosi, ostenta il piacere per il grottesco e il bizzarro, assecondando un gusto popolare che ancora apprezza, nonostante lo splatter cinematografico iperrealistico, l’ingenuità dell’haunted house con i suoi manichini e le sue strutture apparentemente decrepite e fatiscenti oppure il surrealismo dell’equino antropomorfo robotizzato che cavalca un vecchietto tremolante. Insomma il principio del bestiario e dell’inusuale, consacrato dal grande Barnum Circus, vale ancora e si completa con l’immancabile “Ripley’s Believe It or Not! Museum”.
Commistioni e abbinamenti improbabili danno dunque un senso compiuto a un eclettismo a forti tinte, essenzialmente volto a un pittoresco da cui trapela l’entusiasmo, l’ingenuità, il kitsch spensierato di quell’estetica popolare americana che lo spirito Tennessee sembra accentuare senza complessi. Il tutto è declinato in una cospicua serie di attrazioni: dai parchi divertimento e acquatici (Wild Bear Falls Indoor Waterpark, Ober Gatlinburg, che d’inverno si trasforma in impianto sciistico) all’intrattenimento familiare (Earthquake Ride, Amazing Mirror Maze, Mysterious Mansion, Arcadia Planet Fun) e ai musei a tema (Hollywood Star Cars Museum, Gatlinburg Heritage Museum). Parallelamente la cittadina ha curato anche la valorizzazione della cultura locale (Great Smoky Arts and Crafts Community, la leggendaria Historic Ogle Log Cabin, Noah Ogle Place), e naturalmente i percorsi e siti naturali (Aerial Tramway, Hen Wallow Water Falls, Baskins Creek Falls) e la Roaring Fork, il sentiero che costeggia i ruscelli forestali e che in autunno elargisce l’ineffabile spettacolo delle foreste multicolori. E poi teatri, cinema, cabaret e show di magia (Sweet Fanny Adams Theatre, Comedy Hypnosis Show with Guy Michaels, Bill Gladwell, The Mentalist). Da menzionare, infine, la pratica dei cosiddetti “Hillbilly Weddings”, vale a dire matrimoni consacrati secondo l’usanza locale in aree naturali, all’interno di cappelle rustiche personalizzabili, oltre a quelle più canoniche disseminate nell’area cittadina.
E infine parliamo della storica Ole Smoky Moonshine Holler, che rivendicando con fierezza la sua natura di family business gestisce l’intera filiera non più del temuto “hooch” (l’epiteto che indicava il tipico liquore di bassa qualità per il contrabbando), ma di un superalcolico raffinato e rinomato. Emblema della città e mimesi edulcorata di un passato in realtà durissimo, oggi è il luogo più visitato e più citato di Gatlinburg, oltre che la prima distilleria ufficialmente autorizzata, nel Tennessee, a produrre fuori dalla clandestinità l’oro locale: il whiskey.
Scaffali, capanne, travi e botti di legno utilizzate come supporto espositivo costituiscono l’intelaiatura materiale delle sue ambientazioni interne. L’estetica evocativa di un’epoca così controversa è frutto di una cura meticolosa per i dettagli di corredo: vecchie targhe automobilistiche fissate sulle travi, réclame d’epoca, imballi, copricapi e capi in pelliccia alla Davy Crockett, l’eroe del Tennessee. A ciò si aggiungano alcuni elementi dominanti del design interno: scintillanti e voluminose automobili d’epoca, che furono utilizzate per il traffico clandestino dei distillati, ora costituiscono sedimenti storici di una nazione resa smemorata dalla sua crescita rapidissima e che cerca pertanto di ricostruire, ovunque e minuziosamente, le proprie origini. Anche una Ford Coupe Deluxe del 1940 e altre auto mitiche colme di abiti possono assolvere questa funzione, oltre a fungere da soluzioni di visual e cross-merchandising.
È in questo ambiente che si sviluppa un’autentica “moonshine experience”. Si varca la soglia della Holler e un penetrante e pervasivo profumo di grano fermentato anticipa sensazioni che riconducono a un passato lontano e leggendario. Si sorseggiano gli assaggi di whiskey. Si mangiano peanut bollite o apple pie. Poi su decine di tradizionali “rocking chairs” del sud si assiste a sessioni ininterrotte di live bluegrass music nella piazzetta ricavata all’interno della costruzione. Ma la Holler delinea anche un tratto d’identità nazionale, rivendicato con orgoglio da innumerevoli citazioni e allusioni a riguardo, sparse in tutta la cittadina. Un’identità che affonda le sue radici in un mondo remoto, laddove l’arte di produrre o smerciare in qualche modo il whiskey era un espediente per sopravvivere ai terribili anni di depressione economica e trovare un momentaneo conforto, in attesa di tempi migliori.
* Presidente di Popai Italy
Alla concezione e alle ricerche necessarie per l’articolo ha contribuito Marco Tirelli