Un mercato enormemente più ampio e davvero selvaggio ha inglobato il nostro, creando asfissia in molti settori che tentavano di operare secondo le logiche del “consumatore sovrano”
In tempi di cosiddetto “pensiero unico” la ricerca delle distinzioni è importante. Agli studenti sensibili alle premesse concettuali dello studio del marketing propongo sempre una distinzione fondamentale. L’ambiente in cui questa disciplina si trova a operare non è sempre lo stesso. La differenza da cogliere con chiarezza è quella tra socialdemocrazie e “democrazie dei consumatori”. L’Europa e l’Italia sono socialdemocrazie di fatto. Infatti, i programmi riformisti dei socialisti dei primi anni del ‘900 (scuole, ferrovie, poste, ospedali di stato, regimi privilegiati per la cooperazione, integrazione dei sindacati nella vita economica, imposte progressive ecc.) sono stati tutti realizzati oltre ogni speranza dei nostri bisnonni. Solo l’obiettivo della riduzione del debito pubblico (i bisnonni sapevano bene a chi sarebbe toccato pagarlo) è stato clamorosamente mancato.
Dunque oggi, le socialdemocrazie europee privilegiano la difesa dei posti di lavoro e dei salari (di qualunque natura) rispetto alla produttività delle filiere che producono i beni e i servizi di consumo (anche scuola, sanità, trasporti… sono consumi!). I consumatori sono inoltre “protetti” dai meccanismi distributivi e amministrativi dello stato. Per questo i governi delle socialdemocrazie sono letteralmente paralizzati di fronte alla necessità di tagliare la spesa pubblica. La sanità? Ovviamente no. La scuola? Orrore. L’arte dei musei e dei teatri deserti? Aberrazione. I trasporti? Impossibile. E così via. Favorire lo sviluppo di Uber? Scherziamo? Aprire distributori di benzina e farmacie nei supermercati? Giammai. E gli esempi potrebbero continuare all’infinito.
Le “democrazie di consumo”, invece, pongono al centro l’individuo che consuma. Gli attribuiscono (nel bene e nel male) la piena responsabilità di se stesso. Dunque, ciò che aumenta il potenziale di consumo attraverso i meccanismi distributivi del mercato è bene. Gli ostacoli a questo processo sono un male da rimuovere (almeno in teoria). I risultati in termini comportamentali divengono evidenti attraverso alcuni esempi. In Italia chi vende tabacco, vini e liquori lungo le autostrade non può vendere analgesici, purganti o antiemorroidali. Negli Usa chi vende farmaci etici o da banco vende anche tabacco e vini e liquori. Il cliente può acquistare i rimedi per una sbornia o le bevande per sbronzarsi; può fumare o acquistare prodotti contro il tabagismo, la scelta spetta a lui, totalmente.
Nelle nostre socialdemocrazie (caso A) la scuola è un diritto. Nelle democrazie di consumo la scuola è un privilegio a cui far corrispondere sacrificio (monetario), impegno e risultati. Nelle socialdemocrazie le scuole (superiori in particolare) le pagano soprattutto coloro che non ci vanno, attraverso la tassazione. Nelle democrazie di consumo (caso B) le scuole le paga chi ci va, grazie al risparmio di un reddito tassato il minimo possibile.
Egualmente i teatri lirici sono pagati, nel caso A, da chi in vita sua non ascolterà mai un concerto o un’opera lirica. In B gli artisti sono pagati se raccolgono un pubblico sufficiente o godono del sostegno dei filantropi. In A i film d’autore finiscono in archivio senza traccia tra un pubblico degno di nota, ma garantiscono la sopravvivenza degli intellettuali che li hanno concepiti. Nel caso B una serie televisiva può essere interrotta se l’audience non corrisponde a quella attesa e registi e attori di film che floppano al botteghino cambiano mestiere.
Ciò detto, racconto ai giovani che mi vogliono ascoltare che le 4 P del marketing pensate da Jerome McCarthy (e oggi divenute 5 o 6) sono una gran bella idea, ma se si trascura la cornice di contorno, si finisce per scimmiottare qualcosa di molto lontano. Il nostro mondo del largo consumo ne sta prendendo coscienza pur tra il fumo delle pseudoteorie (quarta settimana, fine delle classi medie, clessidre). Le logiche del mercato interno, anche se impedite da lacci e lacciuoli, in passato, soddisfacevano parte della domanda crescente degli individui-consumatori.
Ora che un mercato enormemente più ampio e stavolta davvero selvaggio (a cui non si possono imporre regole) ha inglobato il nostro, l’asfissia sta colpendo molti settori (per primo il largo consumo) che tentavano di operare secondo le logiche delle democrazie di consumo, del “consumatore sovrano”. Ne discende che l’ulteriore decennio di stagnazione che ci attende difficilmente potrà essere accorciato. L’imprevista implosione del comunismo (proprio perché regime di sistematica e pervasiva violenza psicologica e materiale) ha creato il nulla, che è stato riempito subito dall’iniziativa individuale e, soprattutto, dall’accumulazione primitiva (per dirla con Marx) degli oligarchi. I sistemi socialdemocratici, in quanto non-violenti, tolleranti, ma deresponsabilizzanti, sono enormemente più resistenti. Chiunque (nessun escluso) è coinvolto nel meccanismo di redistribuzione dello stato e ha qualcosa da perdere passando a una democrazia di consumo. Deng Hsiao Ping, il comunista che ha salvato la Cina comunista dalla catastrofe, ebbe il coraggio di affermare “Poverty is not socialism. To be rich is glorious”. E così dicendo, introdusse nel suo paese, almeno in parte, quella “democrazia di consumo” che ha creato una classe media di 300 milioni di individui e che consente oggi ai turisti cinesi di sostenere i nostri traballanti settori del lusso e del turismo. Continuiamo pure a insegnare marketing ai giovani, ma senza “market” il contenuto esortativo del gerundio “-ing” ha ben poche speranze di realizzazione.
Daniele Tirelli
www.danieletirelli.it (Amagi)