La settimana della moda di Londra ha confermato, se ce n’era bisogno, il ruolo che gli stilisti e le aziende del settore attribuiscono alla rete, in particolare ai social media, per poter disporre di una cassa di risonanza davvero globale, soprattutto per chi pensa di non avere un budget sufficiente per utilizzare i mezzi di comunicazione classici. Non sorprende allora che Bergdorf Goodman, Harrods e Bloomingdale’s abbiano instaurato da qualche tempo relazioni con blogger del settore abbigliamento per poter accedere al pubblico più giovane attraverso storie “genuine”, raccontate con il linguaggio spontaneo delle coetanee. Blogger che presentano alcuni tratti distintivi propri delle celebrità, come la notorietà e un seguito consolidato, ma costano molto meno e vengono percepite come più accessibili. Bergdorf Goodman, per esempio, ha chiesto a 5 blogger di fare da testimonial per il lancio della nuova collezione di sneaker sponsorizzata da New Blogger che diventano testimonial delle marche, campagne costruite come fenomeni virali, i principali social network che adottano un bottone Buy per consentire agli utenti di effettuare tutti i passaggi della transazione. Sono solo gli ultimi passi della continua evoluzione del mondo digitaleBalance. Con Harrods ha collaborato Jessie Bush di “We The People Style”, la quale, oltre a offrire dritte sulle tendenze più recenti, si è fatta fotografare con alcuni capi proposti dal celebre department store. Blomingdale’s ha invece realizzato una collaborazione con Aimee Song di “Song of Style”. Replica della precedente esperienza nell’area della cura persona con Robin Black di “Beauty is Boring”. Forme di collaborazione che, se si concretizzano in eventi all’interno dei negozi, poi si amplificano nella rete. Ahimè spesso a spese anche delle più famose e patinate riviste, nonché delle giornaliste più influenti. Negli Stati Uniti, da Macy’s a Michael Kors, da Abercrombie & Fitch ad Aeropostale o American Eagle, le brand stanno cambiando strategia per riconquistare i millennial, una generazione la cui parola d’ordine è sharing e alla quale ci si può rivolgere solo attraverso i social network, meglio se filtrati dai loro pari, dai blogger, dai giornalisti. Determinante il fatto che Twitter, Facebook, Snapchat, Yahoo, Tumblr e altri social network, oltre a YouTube ovviamente, mettano a disposizione piattaforme attraverso le quali le aziende, le celebrità così come la gente qualsiasi possono pubblicare video e immagini in grado di promuovere efficacemente questo genere di prodotti. Giusto per dare qualche numero, una campagna natalizia di JcPenney ha fruttato 3 milioni di viste su Twitter, al costo di 4 centesimi ciascuna. Oltre 16 milioni le impression, il 90% delle quali organiche. Michael Kors, una delle marche più attive sui social media, già presente su Twitter, Facebook, Instagram, Vine e Pinterest con più di 25 milioni di follower, ha di recente avviato una collaborazione con Snapchat, una delle piattaforme più amate dalla sua clientela, in occasione della Fashion Week di NewYork per condividere contenuti del backstage e delle sfilate. Un altro esempio di triangolazione tra media? Victoria’s Secret e il periodico People hanno stretto un accordo con Snapchat per promuovere sul suo Discover il “Victoria’s Secret Swim Special”, che passa sulla Cbs. Sono 10 a oggi le testate che utilizzano la piattaforma Discover per pubblicare ogni giorno un certo numero di storie all’interno delle quali compaiono le pubblicità vendute dagli editori stessi. Un fenomeno che ovviamente non riguarda solo marche e insegne dell’abbigliamento e del lusso, se è vero che Whole Foods e H-E-B sono leader nell’utilizzo di Twitter, come si può facilmente verificare andando su http://www.chron.com/business/article/Whole-Foods-H-E-Bare-top-grocers-on-Twitter-6078250.php. Più in generale tutte le grandi marche hanno sposato la comunicazione sui social media. La società di analytics Simply Measured sostiene che il coinvolgimento per le aziende è cresciuto del 105% nel quarto trimestre 2014 sul periodo corrispondente dell’anno prima. Nello stesso periodo, analizzando le 100 Best Global Brands d’Interbran, ha misurato un incremento dell’11% dei tweet da parte delle aziende. Mentre gli interventi dei loro follower sono cresciuti del 38% nel corso dell’intero 2014. Il 95% delle aziende twitta almeno una volta al giorno. I retweet e le risposte dei servizi di customer service correlati hanno provocato un incremento dei post delle marche del 25%, anno su anno. Il 48% delle aziende poi risponde ad almeno un tweet al giorno, il 91% ha risposto ad almeno un utente nel trimestre. Il coinvolgimento per tweet è passato dalle 91 interazioni medie dell’ultimo trimestre 2013 alle 168 del 2014. Per gli scettici la capacità degli strumenti digitali di creare fenomeni virali è testimoniata dalla promozione che si è concesso BuzzFeed lanciando di recente il quesito sul famoso colore dell’abito (bianco e oro o nero e blu?). Oltre 26 milioni di persone l’hanno visto nelle prime settimane; 670.000 nello stesso istante, oltre 500.000 delle quali collegate via mobile. Per qualche tempo argomento più trattato su Twitter, lo è stato anche nei programmi d’intrattenimento mattutini della televisione, a dimostrazione del gioco di squadra tra diversi mezzi di comunicazione. E anche della capacità creativa del team di BuzzFeed, oltre 70 persone, che si occupa di creare contenuti video da distribuire a liste predefinite di utenti su tutti i mezzi digitali disponibili, per promuovere prodotti aziendali senza che sembrino pubblicità. Attività che nel 2014 ha garantito un fatturato di oltre 100 milioni di dollari. Stretti anche i legami con il mondo dell’ecommerce. A Natale il 70% del traffico sul sito Walmart.com è venuto da strumenti mobile. Posto che il 64% del tempo dedicato a questi mezzi è assorbito dalle piattaforme social e che il 33% delle transazioni di ecommerce a livello mondiale proviene da strumenti mobile (fonte: State of Mobile Commerce Report di Criteo), allora, per la proprietà transitiva, la convergenza è obbligata. È naturale intercettare la clientela là dove trascorre più tempo e può trovare anche un facile bottone per trasformare un’informazione interessante in un atto d’acquisto.
È noto che Facebook, Twitter, Tumblr, Instagram, YouTube, Pinterest e LinkedIn consentono di profilare il pubblico per indirizzare messaggi rilevanti. I tassi di clickthrough su questi media tendono perciò a essere tra il 10 e il 20% più alti della display advertising tradizionale. Ora Facebook, con Product Ads, consente alle aziende di caricare l’intero catalogo di prodotti per raggiungere i potenziali clienti in base a interessi, localizzazioni o altre variabili. Non a caso il 69% del suo fatturato nel quarto trimestre 2014 proveniva già dal mobile. E allora, dopo Facebook e Twitter, anche Pinterest sta pensando di adottare un bottone Buy per consentire agli utenti un’esperienza senza soluzione di continuità nel completare una transazione rimanendo nel social network. Per le aziende che hanno vetrine con i propri prodotti su Pinterest l’interesse appare evidente: potere trasformare tutti gli utenti che seguono la pagina dell’azienda in clienti. Eppure anche i social network hanno delle zone d’ombra. Volendo prescindere dalle frodi dei numeri di traffico dichiarati, la rete garantisce un anonimato che si presta a comportamenti non adeguati. Traendo spunto dai più di 5 milioni di tweet negativi a proposito della bellezza e del corpo inviati dalle donne lo scorso anno, 4 su 5 di tutti quelli postati sull’argomento, Dove ha voluto lanciare la campagna buonista “#SpeakBeautiful”. Così per la Notte degli Oscar ha monitorato Twitter alla ricerca di messaggi negativi, ai quali ha fatto rispondere in modo positivo da esperti in materiadi autostima. Estée Lauder, invece, con la campagna “#QuarterLifeCrisis” prende di mira le millennial che, appena entrate nel mondo del lavoro, cominciano a sperimentare i primi danni procurati dall’invecchiamento della pelle. L’obiettivo? Proporre loro i prodotti della sua linea Origins attraverso una campagna articolata con blog, esperti e opinion leader. Altro target, inseguito questa volta da YouTube, è quello dei bambini, ai quali è dedicata un’app gratuita per iOs e Android che prevede una serie di filtri che elimineranno i contenuti ritenuti inappropriati. Stesso discorso per la pubblicità che finanzierà l’iniziativa. Mossa suggerita dall’osservazione che se il tempo dedicato in media a YouTube nel 2014 è aumentato del 50%, quello per i contenuti d’intrattenimento a carattere familiare è cresciuto del 200%. Quattro le categorie di YouTube Kids: show, musica, educazione, esplorazione, ai cui contenuti si accede grazie a un’app concepita secondo gli standard più rigidi del Children’s Online Privacy Protection Act relativo alla profilazione dei minori di 13 anni. Insomma, il mondo digitale rappresenta una materia in continua evoluzione, con riflessi rilevanti in termini d’intrattenimento, socializzazione tra le persone, comunicazione e promozione dalle aziende verso il proprio pubblico per influenzarne i processi d’acquisto on e offline. E mai come oggi vale il detto “chi si ferma è perduto”. Perché, solo per non rimanere indietro, bisogna continuare a correre.
Filippo Genzini
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