La promozione “free hot drink” di Waitrose, lanciata nel 2011, è stata definita da qualcuno un vero e proprio programma di fidelizzazione, con oltre un milione di tazze di bevande calde distribuite nelle settimane di maggior picco, rispetto ai 5,6 milioni di clienti dell’insegna e un costo settimanale stimato in circa 150.000 sterline. Eppure non è considerata un caso di successo, in quanto premiava tanto i clienti occasionali che le persone che entravano nei supermercati solo per scroccare una cioccolata o un cappuccino, con livelli di disservizio che andavano soprattutto a scapito dei clienti migliori. Ai quali non era riservato alcun trattamento privilegiato. E così, da febbraio di quest’anno, Waitrose ha deciso di premiare solo i clienti che hanno compiuto almeno un acquisto nel punto di vendita. Una vicenda che mi ha ricordato la sintesi in fondo allo scontrino di uno dei miei supermercati di fiducia dell’importo degli sconti riservati ai programmi fedeltà, sempre inferiore a quello destinati a tutti. Che senso ha comunicare ciò a un titolare di una carta grazie alla quale l’insegna dovrebbe riconoscere un ottimo cliente che acquista per diverse migliaia di euro all’anno? Aderire a un programma fedeltà, essere membri, genera delle aspettative che, se disattese, possono provocare nella relazione con la clientela danni più gravi dell’assenza di un loyalty program. Un’opportunità persa, se è vero che una recente ricerca condotta da Grassroots Group ha rilevato che il 55% degli intervistati considera il riconoscimento tangibile della fedeltà come un fattore che contribuisce a una relazione di lungo periodo. E che il 23% è passato a una marca o insegna diversa dall’abituale in funzione del programma fedeltà. D’altronde, chiunque abbia modo di analizzare i big data delle transazioni dei clienti non ha difficoltà a toccare con mano la veridicità della legge di Pareto, portata se possibile agli estremi. Così come non è difficile avere conferma di quali siano i clienti profittevoli, qualora si sia in grado di associare ai dati di acquisto anche quelli di marginalità. Verità di cui è sempre più consapevole anche chi lavora nel mondo digitale e, in particolar modo, con i social media, dove gli investimenti vengono distribuiti ancora a pioggia su tutti i clienti e, talvolta, anche sui non clienti, nonostante secondo EngageSciences, poche persone siano responsabili del buon nome e del riverbero creato dalla marca o dall’insegna (il 4,7% dei clienti, per la precisione, ai quali sono attribuibili la totalità dei cosiddetti earned media e tutte le conversioni ottenute). Fatto sta che secondo una ricerca a livello mondiale di Econsultancy e RedEye dello scorso anno solo il 23% degli investitori personalizza la comunicazione nei canali offline, contro l’88% delle email e il 44% dei siti web. Un altro studio, commissionato da Evergage a Researchscape, afferma che il 49% dei responsabili marketing hanno intenzione di aumentare i loro investimenti nella personalizzazione già da quest’anno. Purtroppo, tuttavia, secondo un sondaggio di Vb Insight, l’80% degli intervistati conosce solo i dati anagrafici e i comportamenti di spesa dei clienti. Informazioni insufficienti per la personalizzazione, ovvero l’ultimo step del marketing mirato. Peccato perché, stando a Lbma, il 45% dei clienti è più propenso ad acquistare da aziende che offrono una comunicazione personalizzata, quota che sale al 60% negli Stati Uniti. Esempi di personalizzazione nella logica della customer care? È di questi giorni la notizia dell’installazione di oltre 600 beacon in 28 ipermercati di Carrefour in Romania, in grado d’interagire con gli apparati mobile dei clienti per migliorarne l’esperienza di acquisto e dialogare in modo personalizzato. La clientela, scaricata da Google Play la app, può caricare la propria lista della spesa e farsi guidare lungo i reparti ai quali è interessata, ricevendo informazioni sulle promozioni disponibili. Proprio grazie ai beacon, Carrefour ha registrato nel corso degli ultimi tempi un incremento del 400% nell’utilizzo dell’app. L’adozione di strumenti simili sta registrando una progressiva penetrazione presso i distributori, proprio grazie alla loro capacità d’interagire in modo efficace con la clientela nel momento in cui si formano le intenzioni d’acquisito. Senza dimenticare che i beacon per loro natura possono raccogliere molte informazioni a proposito dei comportamenti all’interno del punto di vendita come i percorsi fatti, il tempo trascorso in ciascun reparto o davanti a uno scaffale. La piattaforma musicale per ristoranti Rockbot, invece, ha sviluppato una soluzione di beacon per catene di ristoranti come Buffalo Wild Wings, Schlotzsky’s, Bagger Dave’s e Arooga’s, catene come Gap e Anytime Fitness, ma anche per JetBlue. Il beacon riconosce all’ingresso il cliente e, automaticamente, aggiunge una delle sue canzoni preferite alla colonna sonora del ristorante. Il risultato? L’incremento del 101% del coinvolgimento via mobile. United Airlines, infine, grazie alla collaborazione di Locus Labs, usa i beacon nei suoi terminal per guidare i clienti verso il gate del loro volo, modernizzando così un sistema di informazioni e segnaletica davvero obsoleto. La catena di department store Neiman Marcus negli Stati Uniti ha messo a disposizione dei clienti un’app, chiamata Snap.Find.Shop, per consentire loro di rintracciare un prodotto “visto e piaciuto”. Gli utenti dell’app possono fotografare il prodotto di loro interesse, caricare l’immagine e ricevere i risultati della ricerca, ovvero le informazioni relative al prodotto cercato e/o ad altri molto simili. L’app, definita come la “Shazam delle cose”, prende in considerazione fino a 25 caratteristiche utili per l’identificazione del prodotto come le cuciture, i materiali e i modelli. Collegata in tempo reale all’inventario di Neiman Marcus, facilita l’accesso via smartphone e l’acquisto tempestivo del capo desiderato. Un’iniziativa inserita nell’ambito di un programma di customer care basato su dati che confermano come il 75% della spesa in articoli di lusso dei clienti dell’insegna sia influenzata da ricerche online. Grazie alle soluzioni mobile, in particolare, ci si attende di raccogliere maggiori informazioni, nonché ottenere un più alto livello di coinvolgimento e una fedeltà più elevata. Certo la personalizzazione delle comunicazioni e delle azioni di marketing è in funzione delle informazioni disponibili, che devono essere tempestive, complete e accurate. E qui bisogna fare i conti anche con gli atteggiamenti del pubblico. Accenture nella ricerca “Personalization survey” sulle aspettative dei clienti ha rilevato che il 90% vorrebbe limitare l’accesso delle aziende solo ad alcuni dati personali e impedire la loro vendita a terze parti. L’88% desidera decidere le modalità d’uso dei dati, mentre l’84% aspira a poter rivedere e correggere le informazioni raccolte. Quelle relative al sesso (65%), all’età (53%) e ai contatti (52%), si condividono più volentieri. Meno quelle sui social media (24%), sui dati finanziari (13%) e medici (8%). Le comunicazioni personalizzate più gradite offline sono rappresentate da promozioni o coupon da utilizzare alla cassa (82%), nonché dalle promozioni in tempo reale (57%). Online prevale l’ottimizzazione delle comunicazioni in funzione del mezzo usato (64%) e l’offerta di promozioni di articoli ai quali l’utente è interessato. Sempre nell’ambito dello scambio di informazioni personali con vantaggi personalizzati, i clienti gradiscono l’accesso ad affari esclusivi e l’accredito automatico di punti fedeltà e coupon (64%), e poi sconti e offerte speciali (61%). Secondo uno studio condotto da Listrak, l’80% degli americani apprezza le email con offerte basate sulla storia dei loro acquisti precedenti e il 71% le comunicazioni basate sulle navigazioni precedenti. Percentuali alte anche per la pubblicità successiva alla visita a un sito o i consigli sui prodotti promossi da questo mentre vi si sta navigando dentro. Ma attenzione: com’era prevedibile, la sensibilità alle sollecitazioni di riacquisto è meno alta per i prodotti alimentari e più elevata per quelli della cura persona. La gente poi non gradisce il consiglio di limitare la propria spesa in funzione del budget disponibile o di non acquistare cibi in conflitto con le diete in atto.
Filippo Genzini
Ho sempre lavorato nel settore dei servizi innovativi di marketing per le aziende del largo consumo e - in particolare - del retail, sia sul fronte della marketing intelligence sia su quello della comunicazione, con una focalizzazione sull’approccio customer centric. Hobby prediletti: la scrittura e la musica. genzini@admirabilia.it www.ilcommissariozarotti.com