La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) ha emanato recentemente una sentenza circa la licenziabilità per chi fa uso, per fini personali, della mail aziendale. È particolarmente interessante notare che il licenziamento è correlato all’inadempimento contrattuale, ovvero il lavoratore perde tempo a scambiare email private invece di portare a termine il lavoro che gli viene assegnato. Senza addentrarci nello specifico della sentenza, che ha anche importanti rilievi per quel che concerne la privacy (la lettura delle email del dipendente), ci si vuole qui soffermare sul paradossale opposto. Sono, infatti, ormai moltissime le aziende che invitano, o addirittura sollecitano, i dipendenti affinché diventino comunicatori nei social network, proprio nelle ore di lavoro, consentendo loro di usare tutti i device di proprietà dell’azienda. Oggetto di tanto comunicare è l’azienda loro datore di lavoro, mentre l’obiettivo è quello di irraggiarne la conoscenza il più lontano e intensamente possibile. È stata coniata un’espressione che descrive l’atteggiamento dei dipendenti: “employee engagement”. Questa strategia parte da molto lontano ed è radicata nell’impegno dell’azienda a migliorare la qualità della vita dei lavoratori, intervenendo sull’ambiente in cui operano (rendendolo più salubre, gradevole, efficiente), sui flussi di attività (fra cui l’ottimizzazione dei carichi di lavoro), sulla formazione continua per evitare l’obsolescenza delle conoscenze (causa di perdita di risorse umane e d’impossibilità di ricollocamento), offrendo servizi aggiuntivi e agevolazioni, proponendo schemi di stimoli e ricompense per l’adesione alla strategia aziendale. In pratica si parte dal presupposto che un dipendente diventi un “naturale ed entusiasta” sostenitore dell’azienda in funzione di un trattamento che gli consente di lavorare bene, relazionarsi armoniosamente con i colleghi, avere una buona qualità della vita (definita con i parametri del “work-life balance”) e accrescere le proprie competenze. Ne beneficiano gli standard di produttività, la bassa o nulla conflittualità, l’aura di miglior posto dove lavorare. La soddisfazione soggettiva dei dipendenti diventa la molla per cui, anche nelle loro relazioni interpersonali, si sentiranno propensi a divulgare “qualcosa di positivo” sull’azienda. Un qualcosa che quasi sempre viene suggerito loro da chi presiede la comunicazione, fornendo argomenti preconfezionati, immagini e brevi filmati che i dipendenti potranno (o dovranno?) inserire nelle piattaforme di social media. Nella relazione fra dipendenti e azienda, il nuovo orientamento ha preso una china che apre alcuni interrogativi etici e di giurisprudenza del lavoro. C’è, in molte aziende, un’orchestrazione della comunicazione che utilizza i dipendenti come comunicatori, talvolta investendoli di titoli fantasiosi quanto vacui di “ambasciatori”. Questa attività, che formalmente non entra mai nella job description del lavoratore, diventa un impegno che occupa tempo ed energie, ma non ha retribuzione e riconoscimento, ha invece la conseguenza di evidenziare i dipendenti refrattari a queste forme di collaborazione finalizzate a farli diventare attivi sostenitori del datore di lavoro attraverso i social media.
Dipendenti comunicatori per le loro aziende
Marilde Motta08/03/2016