L’inizio dell’anno è il momento canonico dei bilanci. Occasione forzata, ma umanamente comprensibile, perché abbiamo bisogno di scadenze convenzionali per un esercizio che potrebbe essere più regolare. Ma tant’è, noi, in maniera poco originale, non ci sottraiamo e ci chiediamo che anno sia stato il 2015 per il marketing strategico. E invece di compilare uno di quegli elenchi che impazzano sul web, tipo i 10 trend più caldi o le 7 campagne più innovative, azzardiamo un’unica ipotesi, che però ci pare cruciale. Cioè che il 2015 abbia segnato una svolta, ancora malferma magari, ma fondante, nella lunga transizione dal vecchio, rassicurante marketing model prerivoluzione digitale (e precrisi) a un nuovo, ancora non del tutto chiaro, approccio. L’anno in cui si è cominciato, come industry, a ragionare su dati più che farsi attrarre dalla novità, se non dalle mode, di turno. Cominciano infatti a levarsi da più parti voci che evidenziano i problemi a cui sono andati incontro i brand che in questi ultimi anni hanno male interpretato il ruolo dei media digitali, non ultimo un articolo comparso in una testata mainstream e autorevole come il Financial Times (“How the Mad Men have lost the plot”, 6/11/2015). Perché ci sono verità fondamentali che sono state colpevolmente ignorate o perse di vista anche da illustri marketer, e che vale la pena di ricordare proprio come base del nuovo equilibrio che dobbiamo andare a cercare. Per fare crescere un brand è dimostrato che è obbligatorio ampliare la propria user base, perché il grosso dei volumi è costituito da user occasionali e light. Quindi, privilegiare nel proprio piano di marketing la fidelizzazione di uno zoccolo duro di consumatori a spese del trial e dell’attraction può essere un problema. La relazione che abbiamo con i brand, nella stragrande maggioranza dei casi, non è particolarmente profonda. I casi d’infungibilità e di fedeltà assoluta sono molto rari, e questo condiziona la modalità in cui fruiamo della comunicazione pubblicitaria, che è quasi sempre distratta e non particolarmente elaborata. Per questo non è così semplice creare un vero engagement, e invece funziona ancora bene la pubblicità tradizionale one-way e che lavora a bassi livelli di attenzione. A questo proposito, vale la pena di sfatare un altro mito: i media tradizionali, in testa la tv, stanno perdendo audience in maniera molto marginale (fa eccezione la stampa), e sono ancora l’unico modo di sviluppare copertura del target. Una conseguenza di questi errori strategici è pensare che spostare gli investimenti dai media tradizionali al digitale porti lo stesso effetto, aumentandone peraltro l’efficienza in termini di targeting più preciso. Non perché non bisogna investire sul digitale, sia esso in forma di social media, di search o display, ma perché appunto non può sostituirsi per funzione ed efficacia nell’ampliare, o mantenere elevata, la base di user, e quindi a vendere. Brand che hanno provato a fare questa migrazione, come Pepsi, hanno dovuto frettolosamente fare marcia indietro. Tutto questo, lo ribadiamo, non vuol dire che il digitale è inefficace in assoluto ed è sbagliato investirci, ma va usato per quello per cui funziona realmente, al di là di miti e interpretazioni sbagliate. Insomma, con equilibrio, che ci auguriamo sia il nuovo mantra del 2016.
Nella scelta dei media è questione di equilibrio
Andrea Fontanot09/03/2016