Essere social fino a oggi ha significato investire tempo e risorse per costruire un’identità virtuale sulle principali piattaforme presenti online: Facebook, Twitter, Instagram, solo per citarne alcune. Bisognava – e bisogna – esserci, perché il mercato lo pretende, il cliente se lo aspetta, l’opportunità va colta. A farci cosa, però, sono ancora in molti a chiederselo. Gli approcci differiscono enormemente, con risultati contrastanti in termini di successo, soddisfazione, ritorni effettivi degli investimenti profusi. Nella bagarre, o più semplicemente ubriacatura, innescata dalla potenza insita nelle nuove tecnologie che consentono di amplificare in maniera esponenziale i canali di comunicazione con i propri interlocutori, si è forse persa la capacità di sentire il polso della situazione. La socialità presuppone la consapevolezza di un’unione tra le parti in causa, che sta a significare, innanzitutto capacità di ascolto, in particolar modo interconnessione degli obiettivi. Il mercato dell’offerta – che si dovrebbe basare sul semplice principio del rispondere alle esigenze espresse dal cliente – deve oggi confrontarsi con l’emergente istanza di una socialità che va al di là dello scambio economico, una socialità in cui il guadagno personale non è più separato dalla condivisione collettiva, che proprio gli strumenti cosiddetti social impongono. Si tratta di un fenomeno in crescita ed evoluzione che merita di essere monitorato e discusso. Molte grandi aziende si stanno strutturando – attraverso divisioni di csr o comunque ridefinendo le politiche sociali interne – per far fronte alla domanda di una clientela sensibile a tematiche che vanno al di là dei tradizionali schemi di mercato. È giunto il momento in cui due mondi considerati lontani – come finora sono stati quelli definiti “profit” e “non profit” – trovino tempo e spazio per socializzare.
Profit e non profit possono socializzare
Christian Carosi09/03/2016