Le promozioni (di qualunque tipo) costituiscono sempre delle diminuzioni dei regular price. La diminuzione dei prezzi si chiama deflazione. La deflazione mina la crescita economica. Dunque le promozioni rallentano il business (anche se sostengono le vendite). Questo bizzarro sillogismo sembrerebbe partorito dalle idee più strampalate delle correnti teorie macroeconomiche. Infatti, se ciò fosse vero, l’inflazione dovrebbe essere il toccasana dell’economia. Dunque varrebbe la regola: più inflazione = più crescita.
Beato allora il Venezuela, si direbbe, con il suo bel + 180% di crescita dei prezzi al consumo. Ancor meglio per lo Zimbawbe, che nel 2008 mise a segno un’inflazione record del 76.400.000.000%. Peccato che il primo paese stia subendo un arretramento del 10% del pil e la sparizione dei più comuni beni di consumo dai supermercati e lo Zimbawe del 2008 abbia sperimentato un 80% di disoccupazione, con un pil dimezzato.
Dunque vogliamo prezzi alti o prezzi bassi? Certo è che le idee dei policy-maker europei (tranne quelli tedeschi) sono molto confuse. Hanno invocato il quantitative easing inondando i circuiti finanziari di liquidità, accodandosi alle analoghe politiche della Federal Reserve. Poi si sono stupiti che l’economia non riparta. Il problema è che hanno studiato solo un genere di testi e non hanno nemmeno considerato ciò che il vecchio Fred (Friedrich Von Hayek) aveva già spiegato 80 anni fa, prevedendo il crollo del ’29.
L’espansione dell’offerta di moneta incontrollata, diceva, produce “malinvestment”, cioè investimenti che nonostante i tassi d’interesse bassissimi o nulli non sono in grado di produrre profitti tali da poter restituire i capitali presi a prestito. Può accadere, infatti, che la domanda non traini il sistema e che i consumatori finali rifiutino tutti i marketing concept messi a punto negli ultimi anni dalle imprese che si trovano nello stadio finale della catena produttiva.
L’idea balzana delle autorità monetarie e della Bce, invece, consiste nel punire i risparmiatori con tassi praticamente nulli, cosicché le famiglie siano costrette a spendere tutti i soldi di cui dispongono invece di tesaurizzarli. Tuttavia, questo keynesismo ormai degenerato sta provocando due effetti ancor più negativi che si autoalimentano. Il primo consiste in una propensione al risparmio delle famiglie crescente, cioè il contrario di quanto teorizzato. Perché? Semplice, le classi medie (e quelle italiane, in particolare, cioè ognuno di noi) hanno, dopo la falcidia delle loro pensioni e alla luce delle notizie sulla malasanità, la malauniversità, la malassistenza, la malamministrazione, la malaoccupazione… nessuna fiducia nel welfare statalista. Vogliono riportarsi su quel 15% di risparmio del reddito disponibile che rappresenta un livello minimo di sicurezza rispetto alle avversità della vita in una nazione come quella italiana. Ragion per cui, stringono i denti, tagliano il superfluo per accumulare risparmio. I nostri nonni, in pieno boom economico nel 1950-‘60, risparmiavano anche il 40% del reddito percepito pur godendo di consumi nemmeno lontanamente paragonabili a quelli odierni. I grandi teorici sanno niente di marketing e del reale comportamento dei consumatori e di come il nostro sistema sia costruito proprio sul superfluo, tenuto faticosamente vivo dalla pubblicità e dalle continue promozioni. Una visita in meno dal parrucchiere all’anno, se generalizzata, significa un – 12% per il settore. Il rinvio di due anni nell’acquisto dell’auto nuova causa un – 20% del mercato, e così via. Lo stile di vita di una famiglia cambia di poco, ma per il mercato sono dolori. Basta guardarsi in casa e parlare con amici e parenti per capire che questo è il problema. Al superfluo si può rinunciare.
Il secondo fenomeno negativo è quello che Hayek spiegava con il suo celebre triangolo. In un’economia senza interferenze da parte dello stato, il capitale disponibile per l’investimento delle imprese corrisponde al risparmio delle famiglie (e delle imprese stesse). Il risparmio è determinato dal tasso naturale d’interesse, cioè dal premio che le famiglie richiedono annualmente per rinunciare al consumo immediato. Quindi se la Banca Centrale abbassa artificiosamente i tassi d’interesse, accade che vengano attivati investimenti che, in precedenza, sarebbero stati reputati non credibili o eccessivi. Per rilanciare la crescita servono investimenti, è il mantra martellante ripetuto ovunque. Ma quali? Quelli improduttivi dello stato, ovvero le buche keynesiane fatte solo per pagare dei salari a lavoratori improduttivi? Già fatto. Oltre ogni limite. Come testimonia il debito pubblico. Spingere l’industria spaziale? Costruire metropolitane? Se i policy-maker sono così intelligenti e sanno dove investire, perché non lasciano i loro posti sicuri e, prendendosi i loro rischi, non diventano ricchi?
Il guaio è che se (come sta accadendo ora) si finanziano dei “malinvestimenti”, il cui risultato finale viene rifiutato dalle famiglie dei consumatori, il sistema si avvita ancora di più su se stesso. Aumentano le sofferenze delle banche più avventurose e mal gestite (vi dice niente la storia delle banche locali come l’Etruria?). Esse cercano disperatamente di recuperare i loro crediti e rovinano le piccole imprese che sempre loro avevano sollecitato (stessa storia dal ’29 al 2008) ad accedere al credito facile Così facendo aggravano il circolo vizioso della depressione. Le autorità monetarie, spinte dai politici in cerca del consenso, continuano a iniettare moneta nel sistema eludendo la semplice questione: per farci cosa?
Hayek sottolineava che in un determinato momento storico le conoscenze scientifiche e tecnologiche sono date e quindi la capacità globale di convertire gli investimenti in produzioni d’ordine superiore tali da soddisfare bisogni e desideri delle famiglie trova anch’essa dei limiti. Una delle falle catastrofiche delle teorie keynesiane è che trascurano il fattore tempo come variabile fondamentale nel processo di produzione capitalistico. In parole semplici, chiedetevi: dati i correnti tassi d’interesse, quale nuovo marketing concept finanziereste (con i vostri soldi)? In quale settore? In quanto tempo potreste recuperarli? Anche ammesso che la politica economica in atto faccia crescere il pil del 3%, questo vi dà la certezza che il vostro investimento sia profittevole?
Purtroppo la risposta è drammatica in un contesto in cui Usa e Bric (Brasile, Russia, India e Cina) hanno forzato la crescita attraverso la leva monetaria e in cui l’Unione Europea si è incamminata sulla stessa strada, lo smaltimento dei malinvestimenti sarà molto, molto penoso. Il vecchio Fred ricordava che (paradossalmente) il compito della politica economica è, infatti, quello di calmierare i boom economici, perché il loro risvolto inevitabile, come puntualmente la realtà ci ripropone, sono le depressioni che colpiscono sempre e dolorosamente gli strati più deboli della società.
Loris Tirelli e Daniele Tirelli
www.danieletirelli.it (Amagi)