Non c’è niente da fare, in Italia amiamo le contrapposizioni radicali. Da Bartali/Coppi a Totti/Spalletti, dalla borraccia passata al labiale rubato, siamo affascinati dai dualismi, dalle polarizzazioni. E allora, anche nel nostro piccolo mondo moderno (più o meno), non possiamo fare a meno di schierarci: è offline contro online, vecchio contro nuovo, in store opposto ad above the line, e via andare. Il fatto è che mi è capitato più volte, anche su queste colonne, di esprimere perplessità su scelte di marketing strategico dettate più da un apparente obbligo di essere al passo con i tempi mediatici, dal non essere tagliati fuori dal “marketing del 21° secolo”. Ma non è certo da opposizione preconcetta o da un senso di nostalgia per i bei tempi dei grp dominanti che nascono tali perplessità, ma piuttosto da una ricerca di un equilibrio strategico. Perché il marketing del 21° secolo non è così diverso, in termini di principi, da quello del 20° (o del 19°, già che ci siamo), utilizza solo strumenti diversi e più numerosi, ma alla fine il suo compito è d’influenzare la percezione, i comportamenti e le scelte dei consumatori. Consumatori che, sì, come hanno dimostrato McKinsey e l’università di Harvard, hanno cambiato piuttosto radicalmente la loro customer journey praticamente in tutti i mercati, siano essi fmcg, auto o servizi. E questo grazie alla profonda trasformazione impressa dal web prima e dal mobile dopo. Chi lo può negare? Ma, facendo attenzione a cosa può produrre ogni touchpoint, qual è insomma il suo ruolo preciso nel mix e nella journey, perché pretendere che un’attività sui social media sostituisca una campagna atl non è vivere nel 21° secolo, è far torto alle potenzialità stesse della prima.
Le fasi codificate della “nuova” journey by McKinsey/ Harvard sono 4: awareness (in cui si crea il primo set di brand da considerare, e dove, a grandi linee, la potenza della pubblicità tradizionale, magari svolta anche su nuovi media come la web tv, è ancora insuperabile), consideration (fase in cui si definisce la “lista” finale dei brand da considerare, che, attenzione, non è necessariamente più ristretta della precedente, mettendo in soffitta l’immagine classica della “funnel journey”, cioè del percorso a imbuto che parte largo e via via si restringe), purchase (in cui si concretizza l’acquisto e, abbastanza intuitivamente, lo store, che sia fisico oppure online, è re) e user experience (post acquisto, crm, e chi più ne ha più ne metta).
Il punto è che la ricchezza di mezzi per raggiungere i nostri consumatori è tale che possiamo usarne una molteplicità per far sì che lavorino al meglio delle loro potenzialità, nelle diverse fasi, invece di mettersi a combattere inutili guerre di religione. Per esempio il digitale (definizione che, diciamocelo, vuol dire tutto e niente, ma che usiamo per semplicità) è praticamente insostituibile per un’efficace consideration, per la capacità di portare informazioni e influenzare l’attrazione, o il rifiuto, verso un brand.
Ecco, se poi riuscissimo a usare tutta questa ricchezza, partendo anche da una chiarezza e una coerenza strategica di fondo, avremmo fatto davvero un gran bel lavoro.