Ai fiumi d’inchiostro che scorrono a riguardo del nuovo presidente americano, vo- gliamo aggiungere quello di questa rubrica. Qui ci si occupa di brand e licensing,
e non si può perdere un’occasione così ghiotta per gettare una luce, lontana dal clamore politico e di cronaca, sul modello di business adottato da Donald Trump nella costruzione (ops…) del suo marchio-persona. Il caso di Trump come brand è infatti estremamente interessante per il suo approccio innovativo, adottato sia nel core business immobiliare sia nel cosiddetto licensing di “consumer products”.
La Trump Organization è una divisione interna al gruppo, che tramite una strut- tura standard suddivisa per categorie merceologiche concede in licenza da più
di vent’anni il marchio “Donald J. Trump Signature”. “Trump – The Fragrance”, in licenza all’azienda Parlux Cosmetics, è solo uno degli esempi di un progetto di “luxury licensing”, quel lusso di superficie e solo percepito (sui cui però si basa buona parte del successo dei luxury brand globali rivolti al target di neoricchi) che, passando da linee di abbigliamento e accessori, arriva ai prodotti per la casa e arredamento. Se non stupiscono le collezioni Trump di lenzuola e prodotti tessili per la casa o i materassi Trump, può stupire la collana editoriale “Trump Universi- ty”, manuali di business e management in licenza all’editore Wiley sviluppati sulla base dell’omonima (e controversa) società di business education, che spaziano dalla finanza al marketing. Anche in questo caso il modello è strettamente in licenza: scritti da specialisti e accademici, sono libri “Trump”, in quanto arricchiti da una sua prefazione e da una copertina che alimenta il culto della personalità.
Ma il licensing immobiliare è il modello di business in cui il brand Trump dà il meglio di sé. Trump Luxury Real Estate non è infatti proprietaria di tutti gli immo- bili “firmati” Trump: a Manhattan, per esempio, 12 dei 17 immobili sono solo marchiati “Trump” grazie ad accordi di licenza; sugli immobili in licenza Trump
percepisce una royalty, e oltre a favorire il business in contract di altri licenziatari (per esempio Dorya, licenziataria per mobili e arredi), questo modello limita i rischi connessi con il mercato immobiliare. Forbes riporta al proposito un caso in- teressante, accaduto a luglio con The Trump Ocean Club International Hotel and Tower di Panama City: l’immobiliarista Roger Khafif, proprietario dell’immobile, ha trovato nel 2011 i 220 milioni di fondi per costruire l’immobile grazie al brand Trump e all’hotel annesso, di proprietà di Trump. Costato un terzo dell’investi- mento all’immobiliarista fallito sotto il peso di 2 milioni di debiti, il brand Trump è oggi ritenuto irrinunciabile dai proprietari dell’immobile, che non lo hanno voluto coinvolgere nelle dispute legali che si sono generate: la firma Trump dà valore all’immobile.
A margine quindi delle discussioni sulla ricchezza di Trump, e di quanto pesi il bu- siness in licenza (Bloomberg lo stima tra i 32 e 55 milioni di dollari, su un totale di 2,9 miliardi) il punto focale rimane nell’immenso valore di marca che il “brand Trump” riesce a sviluppare. In un settore in cui il “brand slapping”, lo sbattere
il marchio sul prodotto senza troppi sofismi, non produce più valore aggiunto, Trump sembra avere il tocco di Re Mida.