Scrivo nei giorni successivi allo “scioccante” esito delle elezioni americane. Ovviamente fiumi d’inchiostro e di byte per i commenti sono stati spesi dai vari media, ma può essere utile guardare all’evento con un occhio diverso, quello del marketing. La prima lezione è una riflessione sulla potenza del marketing emozionale. Fredde cifre alla mano, Trump ha preso lo stesso numero di voti (in realtà, qualcosa in meno) di McCain e Romney, candidati percepiti “deboli” e agevolmente sconfitti da Obama. La differenza l’hanno fatta circa 5 milioni di persone che hanno votato per il presidente uscente, ma non per la Clinton. Una campagna incapace di smuovere gli animi, e una personalità meno forte del suo avversario, non ha mobilitato, nonostante chiari vantaggi di ordine razionale, questi elettori. Quest’aspetto ha contato più che il tanto sbandierato “desiderio di cambiamento”, o la protesta anti-establishment, che i media hanno definito come centrali. Se fosse stato vero, avremmo visto un significativo aumento dei voti per il tycoon (scelto peraltro, se consideriamo l’astensione, da meno di un quarto degli americani).
Si conferma che il modello di comunicazione basato sulla superiorità di investimenti in tv è obsoleto. Hillary ha speso in pubblicità circa 4 volte più di Trump. Non è bastato. Focus e semplicità. Un messaggio diretto, ripetuto alla nausea, anche se banale (o falso, ma conta la percezione), vince sempre su confusione e disorganicità. Uso dei social. Qui il miliardario newyorkese ha surclassato la rivale, nonostante l’esempio virtuoso dato da Obama. I suoi tweet hanno definito il ritmo della campagna, l’utilizzo di Facebook è stato molto più coinvolgente e impattante del freddo stile di Hillary. Però, attenzione, qual è la lezione per i marketer? Creare conversazione intorno a una personalità debordante come quella di Trump (o in generale su un personaggio pubblico) è un conto, su un brand un altro. Come disse qualcuno, “non ho nessuna voglia di dialogare col mio pacchetto di patatine”. I social sono sì una grande opportunità, ma vanno usati con consapevolezza.
Chiudo con un aspetto molto dibattuto dai media generalisti: il fallimento dei sondaggi, l’ennesimo dopo la Brexit e altri precedenti. La spiegazione principale che è stata data è l’effetto “vergogna” nel dichiarare il proprio voto per Trump, in quanto pubblicamente disdicevole. Ebbene, io non lo credo. Perché sono anni che si discute di questo fenomeno e non è credibile che ancora non si sia in grado di pesare questo effetto (ci sono tecniche anche elementari, come inserire nel questionario domande indirette, per esempio: “per chi crede voteranno i suoi vicini?”). Penso che il problema vero sia la scarsa qualità dei dati, per errori di raccolta, di campionamento e di metodologia. E se questo accade in un ambito che è da un lato semplice (scelta tra due opzioni) e dall’altro teoricamente molto sofisticato, vengono i brividi a pensare alle ricerche di marketing su cui vengono basate decisioni su strategie, budget, campagne. Lezione: in un’epoca di big data e proliferazione di analytics, non ci si può limitare ai numeri, che devono essere integrati con learning qualitativi anche da diverse fonti.