A ogni inizio d’anno sembra d’obbligo condividere le prospettive beneauguranti espresse da più parti: siano esse politiche o economiche. Non mi aggrego. Penso, al contrario, che il 2017 possa essere un anno di ulteriore declino (o decadenza se vi piace di più). Negli anni ’90 raggiungemmo un apex frutto dell’impegno e della concentrazione della generazione di mio padre, detta dei “veterani” o dei “costruttori”. Furono definiti così coloro che ritrovatisi, in Occidente, poco più che ventenni con il lascito disastroso di una guerra di cui, nella maggior parte, furono attori né consapevoli né consenzienti, provarono a inventarsi un futuro. Rispetto ai coetanei americani, coloro che la mia generazione (di baby boomer) definì scioccamente “matusa”, ponendoli alla berlina nelle università e nelle fabbriche, non godettero dell’attenzione di storici come Strauss e Howe (Generations, 1991 e Fourth Turning, 1997). Vennero piuttosto irrisi dagli intellettuali del tempo, per la loro ansia di assicurarsi un benessere consumista che oggi non soddisferebbe neppure le nascenti classi medie del terzo mondo. A loro modo quegli italiani costruirono la versione nostrana dell’“affluent society”, edificarono periferie bellissime per i contadini inurbati e orride per i loro nipoti, debellarono malattie letali (difterite, poliomielite, tubercolosi ecc.), inventarono nuovi materiali, consentirono a tutti di muoversi con un’auto, inventarono i computer, liberarono le donne dai lavori domestici pesanti e aprirono i supermercati. Allo stesso tempo quegli uomini in flanella grigia (e in tuta blu) e le loro donne compite e (in maggioranza) timorate di Dio, tutte dedite ai loro figli, fissarono criteri di vita civile che univano la disciplina appresa nell’esercito e nelle scuole all’invenzione quotidiana di una libera democrazia mai prima sperimentata. Se un terzo della loro vita fu afflitto dall’indigenza della Depressione, e poi dalla Guerra devastatrice, gli altri due terzi si dipanarono in un lungo boom, in cui crebbero noi, i baby boomer. Oggi, giunta l’età della meditazione, avvertiamo dunque quanto sia lontano l’ambito confortevole di quando eravamo figli e non padri, di quando avevamo una guida e non eravamo la guida, di quando ricevevamo immagini prospettiche del futuro, mentre oggi noi dovremmo trasmetterne pur consapevoli di esserne privi.
L’inerzia dei sistemi occidentali (tutti) e la tenuta del comunismo e dell’anti-comunismo ci consentirono di restare in equilibrio precario sino alla fine del secolo, per poi abbandonarci alla lenta, dolce discesa in atto. Uso l’aggettivo “dolce” perché la decadenza è in realtà un periodo confortevole in cui vivere. Si gode di ciò che è stato accumulato senza l’impegno di rigenerare ciò che si consuma. Si riesce ancora a spendere più di quel che si produce, obbligando le future generazioni a darci credito, pur avendo accumulato un debito mostruoso e inesigibile da scaricare sui nipoti. Si difende l’esistente con i suoi privilegi acquisiti appellandosi alla giustizia. Si minimizza ogni rischio evitando la progettualità in nome del pragmatismo. Si godono i luoghi d’arte e le riserve naturali sforzandosi d’ignorare lo squallore delle favelas che accerchiano o contaminano le bellezze ereditate dal passato. E così se l’Occidente dei “veterani” (sotto la guida degli Usa) si pose l’obiettivo d’inviare un uomo sulla luna in 8 anni, oggi la costruzione di una ferrovia o di un ponte appare spreco immotivato o una minaccia allo status quo politicamente corretto. Servirono 8 anni dalla posa della prima pietra (1956-1964) per unire Milano a Napoli e 8 per traforare il Monte-Bianco. Oggi, un tale periodo è forse appena sufficiente per approvare la legge di un grande progetto che comunque non si farà. Tuttavia la decadenza non esclude l’euforia, anzi. Ci entusiasma scrivere, mai esausti, banalità (tweet) con geroglifici puerili (emoj) che spianano ogni complessità linguistica, con ciò che è divenuto simbolo esclusivo di “progresso”: il telefono o mobile o tablet, come vogliamo chiamarlo. Pensiamo sia una grande conquista veder alleviato anche lo sforzo di recarci in un negozio per procurarci l’oggetto dei nostri fugaci desideri, cancellando anche il tempo di desiderarlo (ma chi servirà chi ci servirà comodamente a casa?). L’euforia della business community è rivolta soprattutto ai millennial, solo vagamente consapevoli di essere chiamati a risolvere problemi che baby boomer e generazione X lasciano loro. Strauss e Howe prevedettero che i millennial avrebbero riempito il vuoto lasciato dall’unraveling, dal “casino” conseguente al rifiuto dei valori e de- gli stili di vita sanciti dai “costruttori”. Dovrebbero essere loro a stabilire se e come smantellare l’enorme apparato statale e sovrannazionale che drena le risorse di un apparato produttivo reso asfittico dalle misteriose e incontrollabili correnti geoeconomiche. Loro dovranno decidere quali modelli di vita far prevalere, se propendere cioè verso l’annichilimento del concetto residuale di famiglia, come narra il film “La teoria Svedese dell’amore”, o se riscoprire valori etici e religiosi di stampo occidentale, da contrapporre al fervore irrefrenabile dei seguaci di religioni esogene e demograficamente esondanti, con cui saranno obbligati a convivere. Ma questi sono problemi minori tra i tanti impliciti nella Quarta Svolta teorizzata da Strauss & Howe. Gli 80 anni che ci separano dalla precedente Quarta Svolta sono trascorsi e sembrano preludere alla Grande Crisi rigeneratrice (?). I suoi segnali: la permeabilità dei confini nazionali, la depressione demografica occidentale, la distruzione di posti di lavoro della “frictionless economy”, la guerra suicida dei terroristi, il nascente protezionismo, le svalutazioni competitive e il rallentamento del commercio internazionale. I suoi segnali non si possono ignorare nell’alba livida del 2017.
Daniele Tirelli
www.danieletirelli.it (Amagi)