Il vuoto lasciato dall’assenza del “nemico sovietico” ha prodotto nell’Occidente la noia per le grandi questioni e per il confronto delle idee. Restano gli umori di massa, che confluiscono nei partiti “pigliatutto” a geometria variabile. C’è ancora chi si dedica a ipotizzare il futuro socioeconomico, chi scruta gli innumerevoli, caotici segnali del cambiamento e fronteggia una domanda impellente: siamo davvero trascinati dall’evolvere di un’ennesima rivoluzione industriale? Superfluo dire che il termine “rivoluzione” è una convenzione. Come tale andrebbe usato con parsimonia. Certo è che tutti coloro che vissero nelle epoche in cui si svolsero quelle che noi chiamiamo rivoluzioni industriali non ne ebbero, dall’interno, piena consapevolezza.
A oggi la documentazione raccolta, più o meno precisa, più o meno completa, ci permette di rappresentare vagamente la dinamica dell’economia mondiale a supporto di riflessioni di lungo periodo. Il quadro è impressionante. Si direbbe, quindi, che in epoche (come quella attuale) in cui tutto appare confuso, inaspettato e fuori controllo, la perenne aspirazione del genere umano di anticipare il proprio futuro dovrebbe accentuarsi. Invece il mondo occidentale sembra incapace di uscire dall’inguaribile mélancolie démocratique descritta da Pascal Bruckner più di vent’anni fa.
La nostra civiltà occidentale, fondata sulla libertà individuale d’intraprendere, venne consegnata a se stessa dalla sparizione del suo contrappeso: il nemico sovietico. Senza più l’avversario incombente, spietato e acceso dai suoi valori invertiti, l’Occidente ha perso la fiducia necessaria al dover vincere la sfida e prosperare, a dispetto dell’ostilità altrui, casomai riformandosi sotto la pressione delle critiche che gli venivano rivolte. Il vuoto lasciato dall’assenza del “nemico” ha prodotto la sparizione dei conflitti di opinione, la noia per le grandi questioni, per il confronto delle idee. Restano gli umori di massa, misurati dall’esondante sondaggismo, che confluiscono, in ogni nazione, nei partiti “pigliatutto” a geometria variabile. La generazione dei veterani usciti dalla catarsi della II Guerra Mondiale coltivava, al contrario, due visioni del futuro opposte e positive: in una parte del mondo si guardava al progresso massificato del libero mercato e della democrazia; nell’altra, all’utopia comunista della crescita economica subordinata all’egualitarismo. Durante gli anni cosiddetti “Les Trente Glorieuses” la popolazione di ogni nazione a ovest era orgogliosa – con l’eccezione di pochi “Geremia” – di tutto il “nuovo”, come le autostrade, le compagnie aeree, le industrie alimentari, la televisione, le auto utilitarie, l’urbanistica popolare.
Oggi alla sconfitta dell’utopia egualitaria e, dunque, della sua visione del futuro, si affianca la consapevolezza di aver promesso e fallito la soppressione del business cycle (le fluttuazioni decennali) e le sue crisi devastanti. Emerge allora l’insofferenza per tutto ciò che interviene a turbare uno status quo peraltro conflittuale, sede di rancori e di invidie e di violenza repressa, indifferenti al fatto di lasciare alle future generazioni debiti pubblici mostruosi che condizioneranno l’andamento economico per un secolo.
Se l’Occidente ripiega sul suo eterno presente, altrove c’è chi coltiva invece grandi visioni positive del futuro. Accade nella Russia neocapitalista e in Cina, paesi della cui cultura economica e tecnico-scientifica abbiamo solo impressioni superficiali e di cui ci importa poco. Chi prende in considerazione, da noi, i grandi affreschi di Leonid Grinin e Andrey A. Korotayev, autori di un testo importante come “Great Divergence and Great Convergence: A Global Perspective”? Oppure i lavori di Darya Khalturina? Chi conosce la singolare figura di Askar Akayev, presidente della Kirghisia, ma anche matematico, informatico e ingegnere e supervisore del centro di System Analysis and Mathematical Modeling of World Dynamics? E questo solo per citare alcune tra tante menti pensanti con cui confrontarci? Nei loro contributi si riaffaccia l’idea che alla base della fluttuante crescita globale vi siano le forze ingovernabili dell’innovazione e del progresso tecnologico che si dirama dai breakthrough sino alle più specifiche e imprevedibili applicazioni. Saremmo cioè trasportati verso il domani dalla VI onda di Kondratieff: il ciclo di 60-70 anni che guida i destini del globo e di cui l’andamento economico è solo uno dei suoi molteplici aspetti. La saturazione dei mercati tradizionali, la crisi delle imprese leader nel campo delle vecchie tecnologie, la contrazione del potenziale occupazionale, il dirottamento degli investimenti finanziari producono una redistribuzione globale del reddito, creando conflitti e tensioni crescenti. Emerge, tuttavia, e si rafforza il ruolo delle nuove tecnologie che prospettano nuovi e più efficienti usi delle risorse.
Guardando al passato, le tecniche che si combinarono tra loro nelle precedenti rivoluzioni industriali furono legate a una serie di fattori: all’uso del vapore, alla siderurgia, con conseguente sviluppo delle ferrovie; all’applicazione dei fenomeni elettrici e dunque all’ingegneria pesante e alla chimica industriale; all’elettronica, da cui l’automazione e l’industria aereospaziale. Oggi sarebbe semplicistico dire che l’essenza della quarta ondata è fondata semplicemente su internet. È indubbio che un mondo senza il web è ormai inimmaginabile, ma senza la convergenza di altre innovazioni, preparate dalla ricerca scientifica e dalla successiva R&D, l’impatto del “nuovo” sarebbe molto più lento e diluito. Gli attori dell’econo-system (università-industrie-governo) debbono essere uniti nella condivisione di un’immagine del futuro; ed è quel che accade nei paesi nuovi arrivati nell’arena competitiva. La fase ascendente della prossima K-wave dipenderà dalla combinazione di telecomunicazioni, robotica, e informazione digitalizzata vettori della diffusione dei self-regulating systems, il frutto della rivoluzione cibernetica. I primi e più importanti aspetti sono gli aerei senza pilota, satelliti orbitali ecc. e in un futuro prossimo le auto senza driver e “sharizzate”, qualcosa che, al pari della sostituzione della trazione animale con quella a motore, cambierà non solo il volto delle città, ma anche stili di vita invalsi e ovviamente l’importanza di molte professioni consolidate. La combinazione tra telecomunicazioni, robotica e nanomanipulation permetterà di distribuire specializzazioni e addirittura rare manualità: terapie genetiche, interfacce neurali, nonché diagnostiche e chirurgia a distanza (1.000 operazioni robotizzate nel mondo nel 2000 e 450.000 nel 2012), che colmeranno proibitivi intervalli spazio-temporali. La stessa combinazione abbinata alla scienza dei materiali prospetta, com’è noto, la possibilità di produrre a distanza oggetti, accessori, attrezzi attraverso il controllo di stampanti 3D. Da qui la delocalizzazione di varie produzioni e una drammatica riorganizzazione delle strutture e delle dimensioni produttive.
Le prospettive inquietanti o entusiasmanti che, attingendo a una letteratura negletta, si potrebbero citare sarebbero innumerevoli. Resterebbe da capire se, di fronte a queste suggestioni che galvanizzano altre parti del mondo, l’atteggiamento culturale nella nostra nazione sarà ancora l’introversione propensa al piccolo cabotaggio, rassegnato a subire passivamente gli sconvolgimenti di cui il ciclo secolare è foriero. Viceversa, qualcuno intravede un barlume di risveglio partecipativo? Elizabeth Spencer ebbe a gratificarci dicendo: “…chiunque abbia un sogno dovrebbe andare in Italia. Non importa se si pensa che il sogno sia morto e sepolto, in Italia, si alzerà e camminerà di nuovo”. Chissà!