Se si chiede a un top manager delle industrie del largo consumo o a un imprenditore della distribuzione moderna qual è la missione della sua impresa, quasi sempre la risposta è che l’obiettivo è offrire alla propria clientela la miglior qualità al prezzo più conveniente. Purtroppo questo obiettivo non è perseguibile. In nessun luogo. In nessuna epoca. La qualità percepita dal cliente, intesa nel suo insieme composito di prodotti, di servizi e di immagine, implica costi, e i costi devono essere comunque traslati sui prezzi. Lo dice la teoria economica. Lo dimostra soprattutto la business history. La lezione che possiamo apprendere dalle nazioni in cui il commercio moderno ha radici più antiche e aspetti multiformi è la seguente: certamente si possono praticare prezzi abbastanza inferiori a quelli della concorrenza, ma ciò solo togliendo qualcosa al contenuto qualitativo d’insieme. Ce lo ha insegnato Costco, che comunica esplicitamente la sua filosofia: eliminare ogni costo legato a servizi superflui per trasferire parte del vantaggio alla propria clientela in termini di prezzi imbattibili. Dunque, Costco propone un assortimento ampio, ma piatto: pochissime referenze o una sola per ogni classe di prodotto, grandi formati altorotanti e marche ben note, nonché un marchio privato. In sintesi, solo prodotti, nessun servizio, neppure la borsa della spesa; comunicazione essenziale; accesso ristretto a coloro che acquistano la sua carta membership.
Trader Joe’s potrebbe essere un altro esempio: circa 3.000 marche private, una per ogni prodotto, ambiente spartano, location a basso canone d’affitto in cambio di una gastronomia di qualità garantita a prezzi non comparabili con altre marche, ma che il pubblico percepisce come più bassi. Risultato: una clientela che dimostra fra tutte, negli Usa, la più elevata fedeltà all’insegna. Grocery Outlet è un’altra catena che opera negli stati del West proponendo prezzi scontati del 50-70% su una lunga serie di voci. Sono articoli che derivano da eccessi di produzione di grandi marchi, oppure sono confezioni invendute dopo grandi campagne promozionali o dopo lanci sfortunati da parte dei tanti geni del marketing di compagnie grandi e piccole. Insomma, la catena ha scelto un posizionamento perfettamente coerente con la logica di acquisto dei consumatori “frugali”, attenti al prezzo e indifferenti al marchio.
Viceversa, una sofisticatissima catena come Whole Foods allinea non solo un assortimento profondissimo, ma assicura anche una fitta serie di servizi complementari e una comunicazione molto curata. A ciò si aggiunge un ambiente raffinato ed elegante che si avvale di materiali pregiati e di valenti store designer. Inoltre, Whole Foods persegue una qualità oggettiva indubitabile, grazie a capitolati oltremodo restrittivi nei confronti dei fornitori, ma molto coerenti in tema di biologico, veganesimo, vegetarianesimo, localismo ed ecocompatibilità. Per una trentina d’anni, la sua qualità si è tradotta in prezzi immuni da critiche. Poi, recentemente, tutto ha assunto un risvolto problematico. Il pubblico in target si è ampliato, l’offerta alternativa a opera dei concorrenti è aumentata volgarizzandosi. L’immagine e le vendite di Whole Foods ne hanno quindi sofferto. La nuova percezione (per quanto irrazionale e soggettiva) della massa dei consumatori è di una catena più cara di 10-20 punti rispetto ai vari concorrenti.
Quanto detto evidenzia un enorme problema. Nulla è più sfuggente del concetto di qualità. Potremmo per esempio dire che la qualità è lo “stato” della merce che, per le sue varie caratteristiche, produce la massima soddisfazione per coloro che, in cambio di un equivalente ammontare di denaro, desiderano fruirne. Sul lato delle interpretazioni sociologiche, esiste poi una ben nota definizione di Roland Barthes, secondo il quale il mito che l’attuale società costruisce attorno a ogni oggetto di consumo crea una “perdita di qualità storica dei vari prodotti”. In altre parole noi tutti siamo soggetti a un vuoto di memoria relativamente a come erano i prodotti in passato e, conseguentemente, ci adeguiamo a una qualità artefatta e rinnovata dalle varie strategie aziendali (anche se questo Barthes non lo disse esplicitamente). Un altro sociologo francese, di sicura propensione anticapitalista e che ebbe un ruolo molto importante nella costruzione della critica all’odierna società dei consumi, fu Pierre Bourdieu. La sua definizione di qualità, riferita al gusto prevalente, riveste un profondo aspetto ideologico. Il gusto opererebbe come un marcatore di classe (nel suo doppio significato socioeconomico e di rivelatore di qualità, appunto). In questo senso la definizione degli standard di qualità di ciò che viene messo a disposizione di una popolazione composita e comunque divisa in ceti e classi contribuirebbe a legittimare le differenze sociali, attraverso ciò che egli chiamava “distinzione”. Partendo dalla suggestiva immagine della società dello spettacolo di Guy Debord e dalle riflessioni di Walter Benjamin sulla serialità delle estetiche contemporanee, Jean Baudrillard pose in luce quella che, secondo il suo pensiero, sarebbe la grande mistificazione consistente nella funzione seduttrice della simulazione (a opera dei vari media). Le simulazioni sostituiscono la realtà. Da ciò discenderebbe una qualità aleatoria degli oggetti, che acquisterebbero un valore puramente simbolico.
Questi e altri contributi intellettuali hanno avuto come effetto principale un rafforzamento della mentalità anticapitalista corrente (e spesso inconscia) che, nel suo conformismo e nella sua superficialità, attribuisce alle aziende capacità manipolatrici che (purtroppo per loro) in realtà non hanno. Questi apporti hanno però avuto il merito di richiamare l’attenzione sugli aspetti intangibili e simbolici della qualità. Ne traiamo pertanto la conclusione che, in quanto tali, essi sono percepiti dai consumatori (nella loro diversità) in modo assai differente. Ciò nonostante, nella mentalità di molti imprenditori (che certamente non sono dei grandi fruitori della letteratura menzionata) è del tutto invalso il concetto per cui la qualità e il suo livello sarebbero autoevidenti, e percepibili senza ambiguità dai consumatori. In breve, varrebbe l’adagio per cui “Il prodotto buono si vende da solo”: una sciocchezza che alimenta la deleteria illusione del “giusto prezzo”. Insomma, è tuttora invalsa l’idea per cui la qualità è un dato oggettivo e confrontabile. Ovviamente, si tratta di una convinzione perniciosa che causa un’elevatissima mortalità di prodotti vecchi e nuovi. Ne discende allora che, mentre vengono spese enormi risorse destinate al controllo della qualità nel senso classico della parola, manca un analogo corrispettivo sul piano dell’esplorazione della psicologia e del comportamento dei fruitori del prodotto. E questo costituisce un bel problema. Un problema irrisolto.