Pare che da qualche tempo il marketing sia diventato come una compagnia aerea che offre solo voli verso destinazioni vicine. Una facile low cost per le mete estive più richieste o forse una ex nobile compagnia di bandiera costretta a tagliare i tragitti più lunghi e costosi e mantenere minimalisticamente solo quelli a sicura (o presunta) redditività.
Nel nostro piccolo mondo questo fenomeno si chiama short termism, ossia la crescente ossessione per i risultati di breve (trimestrali, quando va di lusso), a scapito di uno sguardo di lungo periodo. La cosa curiosa è che il fenomeno non è né sconosciuto né tantomeno ignorato: periodicamente si aprono discussioni sui danni che porta e si conclude con alti lai e richiami al “si deve assolutamente fare qualcosa”.
Ma non si fa nulla, in realtà. Il motivo, a mio avviso, è che non si può fare molto, a meno di mettere in discussione alcuni aspetti che forse stanno diventando vacche sacre. Cerco di spiegarmi, partendo necessariamente dal cercare di capire le cause dello short termism, malattia senile del marketing. Le principali sono, ovviamente, quelle strutturali al sistema economico (e non solo): pressione crescente sulla bottom line, quarterly result, necessità di aggiustare i piani in corsa e rivedere gli investimenti, turnover di ruoli e responsabilità aziendali. Se ci si pensa, non è solo il business, ma la politica, e forse il nostro modo di vivere, che sono sempre più imbevuti di una visione a brevissimo.
Qual è l’unico, possibile, antidoto? Noi operatori della comunicazione e del marketing dovremmo avere la forza e la capacità di convincere i decisori (soprattutto quelli finanziari) dell’importanza, anzi dell’imprescindibilità, di un lavoro di medio-lungo termine sui brand e sulle strategie. E gli argomenti non mancano, anzi. Ci sono fior di studi che dimostrano l’efficacia in termini di valore, di sostenibilità di un premium price, di roi, di strategie coerenti di lungo periodo. La baseline in tutte le analisi sul roi è ormai accettata come focus primario al di là di ogni discussione. Eppure noi, che di lavoro faremmo i “persuasori” (non occulti, per carità), siamo sempre meno convincenti in questo pitch che sembra così facile.
E qui arriva la vacca sacra: la spiegazione che io mi do è la promessa fatta dal digitale di rendere tutto misurabile all’istante. Ci si è convinti che questa sia una cosa positiva, quando in realtà non lo è, anzi. Si misura tutto, si hanno mille kpi, spesso in contraddizione, e non si è più in grado di capire quali sono quelli veramente fondamentali. I budget vengono spostati su attività che sono ritenute misurabili, quasi sempre nella logica del breve periodo, quando ci sono studi che dimostrano che un rapporto “sano” è 60/40% tra investimenti nel lungo e nel breve.
Intendiamoci, non sto dicendo che misurare è sbagliato; al contrario, ma che questa abbondanza di metriche disponibili ha creato una non cultura della misurazione. Siamo tutti colpevoli e immersi in questo meccanismo, che alimenta lo short termism ininterrottamente. Temo che se non uccideremo questo bovino, moriremo di miopia.