A dispetto di quanto sostiene la teoria delle “preferenze rivelate”, cardine della microeconomia e del marketing che ne deriva, le preferenze del consumatore costituiscono una nuvola di probabilità che di volta in volta produce risultati simili e diversi a seconda di come ogni individuo valuta e poi acquista qualcosa.
Il prezzo (scritto o comunicato oralmente) è un segnale. All’interno di un determinato ambiente, un individuo che lo coglie subisce, con una certa probabilità, una pulsione, più o meno forte, a rivolgere la sua attenzione verso un “oggetto” (di qualunque natura) che sia a lui cedibile da parte di altri. Stanti le cose, può crearsi, allora, una relazione di causa-effetto tra quel “segnale” e l’azione risolutiva di uno scambio, cioè un acquisto e una vendita, con relativo movimento di denaro. Ne consegue che chi compra preferisce possedere l’oggetto piuttosto che il denaro. Chi vende, al contrario, matura una conclusione di segno opposto: preferisce il denaro al possesso della cosa.
Questa considerazione pone di per sé un problema difficile da concettualizzare. L’individuo A che acquista può essere molto soddisfatto per lo scambio. Chi vende, ovvero B, può essere moderatamente soddisfatto. Quale sia la maggior felicità complessiva non è possibile dire. Certo è che lo scambio si rivela utile a entrambi. Tutto ciò a patto che l’informazione a priori sulle caratteristiche positive dell’oggetto scambiato equivalgano a quelle derivanti, a posteriori, dalla sua fruizione. Semplice no?
In secondo luogo concludiamo che la valutazione del rapporto qualità (o soddisfazione) rispetto al prezzo è strettamente individuale e dunque non quantificabile in modo obiettivo (o collettivo o generalizzabile). Tuttavia, ogni scambio non si attua nel vuoto, ma in un contesto in cui esistono centinaia di alternative all’oggetto in questione; alternative che a loro volta possono, nel tempo, ma potremmo dire quotidianamente, cambiare e mutare i parametri (i criteri) delle scelte del medesimo individuo. Dunque, quelle che chiamiamo “preferenze del consumatore” non sono un dato fisso e conoscibile, come presuppone la teoria delle “preferenze rivelate”, cioè la teoria cardine della microeconomia (e del marketing che ne deriva) abitualmente insegnata nelle università.
Le preferenze del consumatore costituiscono, per così dire, una nuvola di probabilità che di volta in volta produce risultati simili e diversi a seconda di come e quando ogni individuo conduce l’esperimento consistente nel valutare e poi acquistare qualcosa.
Purtroppo la superficialità con la quale la nostra business community (vittima di una cattiva sociologia) interpreta questo fenomeno genera clamorosi fraintendimenti, che inevitabilmente si trasformano in gravose inefficienze: una serie nutrita di proposte di vendita e di relativi acquisti si rivelano subottimali in termini di soddisfazione potenziale della clientela e di minor profitto per chi vende.
La prima causa del male sta nel trasporre un fenomeno strettamente individuale sul piano collettivo, aggregato. Si adotta cioè l’idea che le variazioni di un prezzo e le variazioni dei volumi corrispondenti siano regolate da una “legge naturale”. Mutando d’intensità la variabile causale, i prezzi appunto, che vengono comunicati a migliaia di potenziali clienti dei supermercati, si dovrebbe sistematicamente osservare una certa variazione di segno inverso della domanda. Il tutto sarebbe provato da una linea (calcolata con qualche tecnica statistica) pendente verso il basso, in un grafico che rappresenta il luogo dei punti corrispondenti alle infinite combinazioni di prezzi e quantità.
Ripartiamo allora da alcune considerazioni elementari. Prendiamo il latte che consumiamo ogni giorno. Esso viene venduto in confezioni da 1 litro e costa (ipotesi) 1 euro. Il supermercato decide di chiedere 99 centesimi. Che farà Daniele? Probabilmente resterà indifferente e comprerà ancora un litro di latte. Il giorno dopo il negozio propone 98 centesimi e Daniele comprerà sempre una confezione. E così via sino a che il prezzo raggiunge i 67 centesimi. A quel punto il nostro cliente comprerà 2 confezioni invece di una. Dopo di che continuerà a comprare due confezioni, anche se il loro costo unitario continuerà a scendere, un passo alla volta, a 63, 62, 61 centesimi. Marco invece decide di acquistare 2 litri di latte quando il prezzo tocca 58 centesimi e Giovanni a 53 centesimi. E così via tutti gli altri clienti.
Perché Daniele, Marco e Giovanni decidono a un certo punto di comprare due confezioni invece di una? Risposta: potrebbero bere più latte e meno succhi di frutta. Oppure semplicemente berrebbero più latte perché sono insaziabili (questo è quel che assume la teoria insegnata all’università). Dunque, manovrando la statistica inferenziale e avendo dei dati abbastanza “big”, po- tremmo risolvere matematicamente la questione, convincendoci di aver scoperto una “legge” che governa il loro comportamento: diminuisco i prezzi e nell’insieme vendo di più. Errore. Primo. I prezzi dei supermercati non variano come nell’esempio fatto. In tempi di zero inflazione essi restano stabili per lunghi periodi, alias non hanno alcuna varianza. Quindi, è impossibile rapportare la varianza eventuale della domanda di Daniele e compagni a quella inesistente dei prezzi. È come voler stabilire a che altezza rimbalza una palla senza mai muoverla da terra. Secondo. Le quantità acquistate, nel 99,99% dei casi variano per quantità finite (kg, litri, unità); quindi, la domanda individuale si manifesta a scatti, per punti, per “quanti”, non secondo una funzione continua, una linea appunto, com’è scritto nei manuali.
Terzo. I punti in cui scatta la decisione di acquistare due confezioni invece di una sono diversi da individuo a individuo. La conseguenza è devastante. Prendendo migliaia di individui e sommando le loro spese, otterrò infatti una rappresentazione molto diversa dalla famosa linea continua con cui si raffigura la domanda. A meno che non assuma che tutti gli esseri umani siano dei cloni. Tutte le conclusioni teoriche e quelle pratiche che usiamo correntemente nella nostra pratica diventano, insomma, logicamente inconsistenti e indimostrabili.
Quarto. Se introduciamo un minimo di realismo e supponiamo che esistano più marche di latte, il problema diventa lo stabilire quando Daniele semplicemente cambia marca invece di comprare 2 confezioni di latte se il prezzo di una marca diminuisce o aumenta a sufficienza. Purtroppo trovare una regola applicabile a tutto il parco clienti appare essere un rompicapo ancor più complesso e insolubile. Ciò nonostante, quanti buyer, quanti marketing manager ritengono di saper individuare il corretto “posizionamento di prezzo” di migliaia di marche diverse esposte nei medesimi supermercati?
E allora, si dirà, a che servono tutti i modelli in circolazione dedicati al calcolo della “elasticità al prezzo”? Risposta: la storia dell’umanità è ricca di infinite costruzioni metafisiche volte a rappresentare la realtà. L’agricoltura è progredita al ritmo delle stagioni pur credendo che il sole girasse intorno alla terra. Per secoli, prima di Pico della Mirandola che se ne fece beffe, s’insegnò nelle università il principio secondo cui: “medicus sine astrologia est quasi oculus qui non est in potentia ad operationem”. Sino a un secolo fa si pensava che gli atomi fossero “palline” piene di materia, pur realizzando fondamentali progressi nella chimica e nell’ingegneria. Attualmente la fisica, di fronte agli enigmi della meccanica quantistica, s’interroga sul significato di “legge” della natura e si chiede se tali leggi esistano davvero.
Il nostro mondo, invece, non si chiede mai se le pulsioni di milioni di individui che prendono miliardi di decisioni economiche si possano davvero far collassare nelle usuali, puerili schematizzazioni pronte all’uso. Eppure in questi tempi si ha addirittura la presunzione di poter (e saper) macinare big data sempre più big, per meglio governare il mondo dei consumi. Dubium sapientiae initium.