Il Festival di Sanremo di quest’anno induce due riflessioni importanti che riguardano il modo di fare comunicazione. I risultati di questo Festival sono molto importanti: audience media di 52%, quasi 11 milioni di spettatori mediamente collegati ogni sera, con un picco di 17 milioni. Uniti alla striscia positiva di audience che cresce dal 2015, questi numeri attestano che la tv generalista non è morta e che non sono in crisi i palinsesti; secondo il direttore di Rai1 Teodoli si è superato a volte il 50% di share persino tra gli abbonati Sky. Esistono quindi ampie possibilità per fare una televisione per molti – se non per tutti – e che i social, il multiscreen, le infinite modalità che offre il web possono essere sinergici con la costruzione di un programma di successo pensato per molte persone. E di questo si è accorta anche un’azienda leader come Tim, che da due anni è sponsor unico.
Il Festival 2018 segna un punto importante a favore di un modo di fare televisione in cui la proposta al pubblico è ampia e variegata, ma guidata all’interno di un contenitore accattivante. Il Festival deve il suo successo alla capacità d’innovazione, ma soprattutto a un’attenta capacità autoriale e d’interpretazione del gusto del pubblico (delle singole persone che rappresentano il pubblico), raggiunta nell’edizione attuale sotto la guida di Claudio Fasulo.
Nell’era della frammentazione ha successo un modello in cui questa frammentazione diventa cubismo, forse non a caso citato da Pierfrancesco Favino per descrivere le proprie sensazioni al Festival. Il multiforme dei punti di vista organizzato in uno spazio che guida lo spettatore, lo provoca, lo stimola e al contempo lo conduce e non lo abbandona. I conduttori sono diversi, per storia, stile, ma accomunati dall’essere ritenuti dei professionisti capaci, e per 5 serate collaborano, cambiando ruoli, senza mai pestarsi o pestare i piedi.
Lo spettatore – il cittadino – sembra alla ricerca di un ordine, una chiave di lettura unica della realtà, senza per questo voler ri- nunciare alla diversità, al gusto della libertà offerta dalle tecnologie e dalla molteplicità di stimoli, cui si è abituato. Questo aspetto introduce una seconda riflessione sul successo del Festival di Sanremo 2018: la capacità d’interpretare lo spirito del presente. Già nella sigla “Un giorno qualunque”, scritta da Claudio Baglioni, echeggia il tema della ricerca di normalità, di una mano tesa nel caos, di unità e superamento delle divisioni. La canzone termina con la strofa “ciascuno è chiunque/lontano e qui accanto/insieme dovunque/in uno stesso canto”, che conforta e fa sentire parte del tutto. Inoltre è una canzone collettiva, in cui tutti i cantanti in gara cantano una strofa (con uno stile che ricorda “we are the world”) e che chiude con un ritornello che rimanda all’ultimo mondiale vinto, in un anno in cui l’Italia al mondiale non è presente e sembra dover ricominciare tutto da capo. Un inno alla ricerca di tranquillità e unità, che dà speranza verso il futuro.