Prendo spunto da un articolo a firma di Daniele Tirelli uscito su questa rivista e rilanciato su Linkedin, dove ha acceso un interessante dibattito che invito a seguire. Mi fermo su un aspetto: i consumatori riescono davvero a fare scelte in base a preferenze? Non scomoderò il “libero arbitrio” perché fra gli scaffali del supermercato sta stretto, ma un qualche richiamo alla capacità di esercitare la propria volontà o almeno una certa autonomia di giudizio e d’azione bisogna pur farlo, anche quando si fa la spesa.
Una premessa è necessaria. Tutte le catene della distribuzione, attraverso le loro centrali d’acquisto, collocano a scaffale più o meno gli stessi prodotti selezionati dai buyer fra un certo numero di marche (considerando le multinazionali e le aziende nazionali e un piccolo numero di aziende locali). A queste referenze si affiancano le private label. Il category management rimescola tutto e crea poi il mosaico sugli scaffali (fatto di marche, formati, prezzi ecc.). Questo significa che un qualsivoglia cliente che entra in un qualsivoglia supermercato non si sentirà spaesato, riconoscerà categorie di prodotti e marche collocate secondo un ordine che ben poco differisce da insegna a insegna.
C’è quindi una base di conoscenza pratica che tranquillizza il cliente e lo abilita a gironzolare fra le corsie, trovare e prendere uno specifico prodotto. La scelta (ovvero individuazione del prodotto, comparazione, valutazione, ripensamento, riconsiderazione, decisione) è però guidata (potremmo dire condizionata?) da alcuni fattori: marca, prezzo, promozioni e altro ancora (packaging, pubblicità, il commento di un blogger, il consiglio della suocera ecc.). La volontà vacilla, tentenna, c’è incertezza. La dannazione o la salvezza del borsellino incombono. Ma il cliente si rende conto che non sta compiendo una vera e propria scelta, che la sua preferenza è già decisa e inclusa nella strategia dell’insegna?
Sarebbe interessante poter indagare la consapevolezza relativa ai diversi condizionamenti che spingono gentilmente il cliente a prendere un certo prodotto, di una certa marca e indagare come si sente dopo averlo preferito. I comportamenti indotti (come la fedeltà e la preferenza alla marca tanto quanto al punto di vendita) hanno creato nei clienti reazioni automatiche tali da pregiudicare la libertà di scelta? Se si volesse dare attuazione al significato di scegliere in tutta la sua estensione, bisognerebbe mettere il cliente nella condizione di prendere le distanze da influenze; in modo autonomo il cliente dovrebbe informarsi e dovrebbe esercitarsi a formulare giudizi (assumendone i rischi). Invece quel che si nota è un cliente che ha dato una delega in bianco alla distribuzione. Coccolato fra punti fedeltà, inviti alla prova, offerte speciali, prezzi strillati sui volantini, è davvero in grado di fare scelte? Al massimo si barcamena fra opzioni che gli vengono servite e la preferenza è quella scontata.