Il 2017 sarà ricordato come l’anno in cui tutto ciò che è associato alla pubblicità digitale ha cessato di essere sempre attraente e luccicante, a prescindere dalla sostanza. Alcuni nodi, in particolare quelli legati ai temi della trasparenza e della brand safety, sono venuti al pettine.
L’anno si era aperto con il discorso di Marc Pritchard, chief brand officer di Procter&Gamble, al meeting annuale dello Iab (Internet advertising bureau). Pritchard sollevò il tema della reale viewability dei video (ormai di gran lunga il formato pubblicitario dominante sul web), “truccata” per esempio dai bot che aumentano artificialmente il numero delle visualizzazioni pagate, e accusò l’industria dei media digitali nel complesso di scarsa trasparenza. E P&G aveva poi anche tagliato più di 100 milioni di dollari d’investimento sul digitale, senza che ciò abbia avuto alcun effetto negativo sulle vendite. L’anno è proseguito con le “rivelazioni” sui pericoli per i brand di vedere la propria pubblicità inserita in contesti a dir poco inquietanti, come nel caso dei video di YouTube di propaganda filo-Isis o pubblicati da condannati per pedofilia. Anche qui, diversi brand hanno reagito ritirando i propri budget fino a quando meccanismi più efficaci di tutela non saranno messi in pratica. Aggiungiamo altri momenti di “digital delusion”, come il caso di Uber, travolto da scandali di maltrattamenti sessuali e mancanza di rispetto dei diritti dei lavoratori. O il flop della grande promessa della Realtà Virtuale, tra tagli di prezzo dell’Oculus Rift di Facebook e mancate vendite della Playstation Vr. O ancora, i dubbi sulla reale efficacia degli investimenti sul cosiddetto influencer marketing.
Si calcola che nel 2017 i brand abbiano speso più di 1 miliardo di dollari con gli influencer su Instagram soltanto, ma le difficoltà, da un lato, di determinare in maniera sufficientemente precisa il ritorno su tali investimenti, e dall’altro la mancanza di regole sul comportamento di molti influencer stanno aprendo alcune crepe su questo fronte. Simbolicamente, un anno dopo lo speech di Pritchard, l’altro grande colosso storico del largo consumo, Unilever, per bocca del suo cmo, Keith Weed, e sempre sul palco dell’evento Iab, ha se possibile alzato il tiro, citando i pericoli sociali di protezione dei minori dall’esposizione di contenuto “tossico” e dalla diffusione di materiale teso a incitare all’odio e alla divisione. Lo ha fatto chiamando in causa i due giganti, Google e Facebook, minacciando di togliere gli investimenti su queste piattaforme.
Ecco, questa è una parola chiave: “piattaforme”. Finché le creature di Brin e Zuckerberg si ostinano a considerarsi piattaforme “neutre” di contenuti caricati dagli utenti e non editori, che come tali hanno controllo e responsabilità su ciò che pubblicano, i problemi rimarranno intatti.
Certo, se poi inoltre tagliare gli investimenti non porta conseguenze negative al business, be’ qualche domanda è inevitabile cominciare a farsela.