Mark Zuckerberg deve essere abituato a dire ciò che pensa senza tentennamenti, esponendolo a voce alta. Ha creato dal nulla un impero, fatto di dati personali e fondato sulle vite degli altri. Per farlo bisogna essere spregiudicati. Il suo regno è vasto e conta almeno un paio di miliardi di utenti. Forbes gli attribuisce nel 2018 un patrimonio personale di 72,4 miliardi di dollari. Uno così di solito non usa toni sommessi. Questa volta, invece, ha sussurrato. L’ho osservato con attenzione mentre, in due tornate, prima davanti alla Commissione congiunta Giustizia e Commercio del Senato e poi a quella della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti: rispondeva, senza flettersi, alle domande sul Datagate di Cambridge Analityca.
Chi poneva i quesiti evidentemente parlava di una realtà che non conosce e questo ha facilitato il compito di chi doveva rispondere. Zuckerberg avrebbe potuto anche alzare la voce e sostenere che non è colpa sua, alla fine, se la gente ama raccontarsi, mettersi in mostra e farsi i fatti degli altri. Invece ha preferito prendere posizione, con toni sommessi e controllatissimi. “Mi dispiace”. Con queste parole ha scandito le sue scuse. Colpiscono i modi con i quali queste frasi sono state pronunciate in un contesto solenne. Sono state dette sottovoce cercando di raccontare cosa è successo.
“Sì, vendiamo i dati”, ha proseguito, e da lì è stato un susseguirsi di dichiarazioni, tra sorrisi di plastica, controllo corporeo, assenza apparente di emozioni, descrivendo in modo rassicurante una situazione che avrebbe bisogno di un’accurata revisione: “Riusciremo a risolvere i problemi di Facebook, ma ci vorranno un po’ di anni”. Zuckerberg ha poi detto cose molto utili per capire come stanno davvero le cose. Segnalo in particolare il passaggio in cui, sempre a voce bassa e con la lievità di un sussurro, il fondatore di Facebook ha dichiarato: “Ci sarà sempre una versione gratuita”, ammettendo implicitamente che per chi vuole maggiori tutele esisterà un servizio a pagamento.
A conferma del fatto che i dati valgono ed è con essi che finora si è pagato il conto dei servizi che Facebook offre ai suoi clienti. È stato un sussurro finale, passato quasi inosservato, ma “il sugo della storia”, a ben vedere, è tutto racchiuso in questa frase. La chiave è la gratuità (apparente) dei servizi online. I nostri dati sono ormai una merce di scambio che usiamo per pagare servizi, indispensabili, che ci vengono offerti senza chiederci denaro per fruirne.
Mi viene in mente la storia di Pinocchio, degli zecchini d’oro, del Campo dei miracoli. Ve la ricordate, vero? Pinocchio, nella speranza di moltiplicarli, sotterrò gli zecchini d’oro seguendo i consigli del Gatto e della Volpe. Sappiamo tutti come è andata a finire nella storia di Collodi: Pinocchio capisce sulla propria pelle che niente è gratis e tutto si paga. Vale oggi anche per i nostri dati, che sono la moneta, gli zecchini d’oro dell’economia del presente e del futuro. La morale della storia, e dei sussurri di Zuckerberg, alla fine è proprio questa.
Marco Maglio
Avvocato in Milano, nel 2001 ha fondato lo Studio Legale Maglio & Partnes che fin dalla sua costituzione fornisce assistenza legale specialistica a primarie aziende nazionali e a Gruppi multinazionali, ad Enti pubblici e ad Organizzazioni non profit nell’ambito della data protection, dell’adozione di modelli organizzativi e di codici etici, del diritto del marketing, della prevenzione delle pratiche commerciali scorrette nella comunicazione commerciale interattiva, nel commercio elettronico, nel telemarketing e nelle vendite dirette. Nel 2002 ha fondato Lucerna Iuris, network giuridico formato da legali di tutti i paesi dell’Unione Europea esperti di questioni di privacy, marketing e di comunicazione.