Durante la quarta edizione di Touch sono stati analizzati gli approcci, le esperienze e le strategie che compongono il nucleo centrale delle attività di customer engagement volte al miglior utilizzo delle nuove tecnologie
A osservare il marketing nel largo consumo non si può fare a meno di notare una sorta di disturbo che affligge molte delle aziende: la difficoltà a mettere a fuoco il consumatore. Una specie di miopia che porta l’industria a visualizzare distintamente solo ciò che ha più vicino: il distributore. È quanto sostiene anche da queste pagine Daniele Tirelli, direttore di Amagi e presidente di Retail Institute of Italy. Eppure il mercato rende disponibili enti per correggere questo difetto. Ci sono tecniche d’ingaggio per connettersi al mercato (le promozioni), tecnologie per raccogliere i dati, competenze per analizzarli e farli fruttare per costruire una relazione solida e duratura tra brand e cliente.
È questo il tema di Touch, l’evento organizzato da Promotion Magazine, giunto al suo quarto anno, che si è svolto lo scorso 30 maggio presso la futuristica Samsung Smart Arena, un punto di osservazione per comprendere il mercato, guidati dallo sguardo attento di alcuni protagonisti che hanno provato a rispondere ad alcune domande essenziali: come fare marketing? Ovvero come stabilire una relazione con il mercato che consenta di stringere un patto di fiducia con i consumatori, misurarne la soddisfazione e interpretarne i bisogni in modo da rispondere con prodotti (e atteggiamenti) da loro sempre più graditi? Come diminuire i flop legati al lancio di nuove referenze ed essere nel 10% dei prodotti nuovi che si salvano dalla selezione innaturale del mercato, secondo quanto si chiede Daniele Tirelli nel suo saggio “Darwin al supermercato” (in corso di pubblicazione)?
“Le imprese – ha spiegato Fulvio Furbatto, ceo di Advice Group, devono attivare tutti i loro touchpoint, offline nello store fisico o online nel web o nei dispositivi mobile, per raccogliere informazioni, per semplificare la customer journey, per personalizzare l’ingaggio e costruire una relazione emozionale che vada oltre l’atto di acquisto. La loyalty non è un programma di reward, ma il comportamento che deve avere un’impresa per stare sul mercato. Finché la fidelizzazione verrà considerata soltanto come una leva tattica per incentivare gli acquisti, assisteremo al naufragio della relazione con il consumatore, come dimostra l’elevato tasso di switch da un brand all’altro (61% dei clienti) e l’elevato tasso di abbandono del programma di fidelizzazione (87%). E questo è tanto più grave in quanto il 90% delle aziende investe in attività di engagement e loyalty, con la convinzione di far bene, a fronte di un solo 15% di consumatori che si dichiara soddisfatto. Eppure oggi è possibile personalizzare l’esperienza d’acquisto di ciascun utente, grazie all’integrazione tra business intelligence e machine learning, dotandosi di piattaforme customer data platform che raccolgono e analizzano i dati provenienti da tutti i touchpoint e definiscono cluster comportamentali utili per avviare un dialogo personalizzato con ogni singolo consumatore. È però necessario che all’interno dell’azienda ci sia maggior collaborazione tra marketing management e it ed è importante acquisire nuove figure professionali (molte aziende lo stanno già facendo) come il data scientist, in grado di ricavare insight da enormi quantità di dati, allo scopo di contribuire a definire obiettivi aziendali e soddisfare esigenze specifiche del mercato”. La tecnologia è certamente funzionale a innescare quel circolo virtuoso capace di sancire il patto di lealtà tra marca e mercato che rappresenta il vero processo di fidelizzazione.
Ne è convinto Antonio Votino, responsabile divisione loyalty e direct marketing di Icteam: “Le aziende hanno oggi tutti gli strumenti per seguire il cliente lungo tutto il percorso di acquisto, dal suo domicilio fino al punto di vendita, sia esso fisico o digitale, fino a oltre la transazione e seguirlo nelle sue interazioni con il prodotto o la marca. Un’accorta strategia di loyalty crea una relazione che va gestita nel tempo, rispettando le regole poste all’origine del patto con il cliente e tutti gli stakeholder, rappresentati per esempio dal trade e dal distributore”. Un esempio virtuoso in questo senso è il programma fedeltà di Alpitour “You & Sun”, che prevede il coinvolgimento sia degli acquirenti (con attività di gaming, couponing, sconti) sia degli agenti di viaggio, mediante attività di gaming e incentivi, attraverso una piattaforma online collegata anche ai profili social. Gli strumenti d’ingaggio, di acquisizione dati e di analisi sono senza dubbio determinanti per supportare le strategie delle aziende. Rappresentano il motore del marketing.
Occorre però che, all’interno dell’azienda, ci sia chi decide il percorso, traccia la direzione e convince i passeggeri a intraprendere il viaggio. “La leva emozionale – sottolinea Giuseppe Maria Ardizzone, managing director di Roncaglia Relationship Marketing e strategic planner di Gruppo Roncaglia – è prioritaria, dal momento che la relazione tra cliente e marca ha un indice superiore a quello della razionalità e la capacità attrattiva dell’aspetto emozionale è superiore al valore della marca. Il ricorso massivo alla tecnologia rischia di ridurre la loyalty a un aspetto meccanicistico, spersonalizzando la relazione con il cliente e trasformando il programma di fidelizzazione in una commodity, omologando premi e meccaniche. Per questo occorre puntare soprattutto sui contenuti comunicativi, sullo storytelling. Un programma di fidelizzazione non deve esaurirsi nel raggiungimento di reward, oppure in un gioco o nella partecipazione a una missione secondo un ormai classico schema di gaming, ma deve stimolare un’interazione emozionale con il consumatore per coinvolgerlo in un processo di comunicazione coerente con i valori della marca e finalizzato a comprenderne le scelte”.
Alpitour con il suo programma punta alla fedeltà allargata
Attivo da ottobre 2016, il programma fedeltà di Alpitour “You & Sun” si è evoluto nel tempo per rispondere meglio alle esigenze di un gruppo turistico integrato che è arrivato a coprire tutta la filiera della vacanza, dal tour operating all’aviation, dall’incoming all’hotel management e alle agenzie viaggi.
Il 94% del nostro business – spiega Elena Usilla, responsabile crm & social media di Alpitour – è intermediato e solo il 6% dei prodotti viene acquistato attraverso il nostro sito e il nostro call centre; inoltre, l’acquisto di una vacanza avviene in media ogni 2 o 3 anni e conseguentemente era nata l’esigenza di trovare il modo di coinvolgere i clienti anche in momenti diversi da quelli dell’acquisto”. Ne è derivata una strategia diversa da quella classica che prevedeva il solo accumulo dei punti sulla base della spesa, a favore di un programma più dinamico e ingaggiante che coinvolge i clienti aderenti al programma, gli agenti di viaggio e persino il pubblico non cliente che si trova a entrare in contatto con il mondo Alpitour, per esempio attraverso il canale social con la possibilità di partecipare a un instant win (in palio buoni sconto da 100 euro per una vacanza). Per poter accedere al club è richiesta la registrazione con i propri dati personali, e si partecipa all’estrazione di un viaggio nel mese dell’iscrizione. Nel caso di acquisto di un pacchetto è previsto un sistema premiale che non punta tanto sulla soglia di spesa, ma incentiva con sconti gli acquisti successivi; per i clienti altospendenti, poco attratti da scontistiche, sono previsti vantaggi diversificati, dall’alto contenuto emozionale. “I risultati del primo anno – dice Usilla – sono stati decisamente positivi: 11.550 soci iscritti, il 15% dei quali ha effettuato più di un viaggio, 4.800 buoni emessi, grazie anche al coinvolgimento di 18 aziende partner, 1.300 giocate valide al mese sui canali social da parte del pubblico, oltre 450 giocate valide al mese da parte degli agenti di viaggio”.
Al supermercato si combatte la guerra delle preferenze
A chiusura di Touch la tavola rotonda “Darwin al supermercato. È il cliente a scegliere o è già tutto deciso dall’insegna?” ha visto confrontarsi Rossella Brenna, marketing & sales director di Unes, e Matteo Ghidi, responsabile marketing e trade marketing di Parmareggio, con Daniele Tirelli, presidente di Retail Institute of Italy e direttore generale di Amagi, e autore del saggio “Darwin al supermercato” (in corso di pubblicazione).
Il tema principale viene scandito subito in maniera chiara: i consumatori riescono davvero a fare scelte in base alle loro preferenze oppure non fanno che riconoscere categorie di prodotti e marche collocate secondo un ordine che ben poco differisce da insegna a insegna? E Tirelli sostiene che nel supermercato si coagulano le spinte e le pressioni di agenti economici diversi che cercano di far sopravvivere il loro prodotto e afferma che sarebbe interessante studiare il ciclo di vita di un prodotto con un metodo analogo alla biologia per capire l’aspetto ontologico del prodotto, e quali sono i motivi alla base delle preferenze dei clienti. “Il consumatore – replica Rossella Brenna – prima di tutto si pone il problema di dove andare a fare la spesa: nel negozio di prossimità, magari meno fornito e più piccolo, ma sicuramente più comodo, o in un grande punto di vendita, con un assortimento gigantesco che può anche mettere a disagio chi deve acquistare.
Certamente, dove entrano in gioco le promozioni, diventa vincolante la scelta di assortimento della catena o del singolo punto di vendita, e si affievolisce la capacità di distinguersi dalla concorrenza. Unes sta creando una selezione di prodotti di cui si fa garante: lo ha sperimentato con la linea ‘Il Viaggiator Goloso’, nata con l’intento di creare ricette ad hoc e un rapporto con la filiera della produzione per offrire prodotti unici e distintivi oltre che con un rapporto qualità/prezzo unico. Fondamentale è il punto di vendita, che rappresenta sempre più un touchpoint di comunicazione al cliente; e un ruolo fondamentale per la proposizione attiva dei prodotti hanno gli addetti alle vendite”. Tirelli sottolinea che i convenience fanno emergere un dato spesso trascurato, ossia che il tempo impiegato negli acquisti e negli atti di consumo è una parte essenziale del valore e prezzo, ma sostiene che la maggior parte delle aziende nazionali e di medie dimensioni si accontentano di entrare nel punto di vendita con i loro prodotti senza preoccuparsi di verificare quanto essi siano effettivamente compresi e graditi ai consumatori che costituiscono il loro target. In pratica sono sorprendentemente guidate da una logica di prodotto, più che da un’attenzione al consumatore, sono attente soprattutto a vendere il prodotto al retailer e non al consumatore. Da qui l’alto tasso di fallimenti di nuove marche e nuovi prodotti (ne muoiono 8 su 10).
“È vero – ammette Ghidi – che per noi il cliente è anche la distribuzione, ma non ci dimentichiamo del cliente-consumatore, cercando di realizzare un prodotto che possa soddisfare un bisogno o soddisfarlo meglio rispetto agli altri. Prima di andare sul mercato con una nuova referenza osserviamo ciò di cui hanno bisogno i consumatori, quali sono le tendenze, cercando di leggere i numeri che, per quanto asettici, danno una visione del mercato. Poi testiamo le nuove proposte con i consumatori e condividiamo i dati con la distribuzione, com’è successo di recente con ‘L’Abc della merenda’, un mix di parmigiano, grissini e succo di frutta, che va a intercettare il bisogno avvertito delle mamme di merende sane e di alto contenuto nutrizionale e il desiderio dei bambini di avere un prodotto buono”. Sempre a proposito del lancio di nuovi prodotti, Tirelli sostiene anche che l’industria di medie e piccole dimensioni dovrebbe ribaltare l’importanza della distribuzione numerica rispetto alla ponderata. “Noi dobbiamo partire con una copertura ponderata – risponde ancora Ghidi – perché dobbiamo coprire almeno il 40% dei punti di vendita nei primi tre mesi di lancio, altrimenti il retailer non inserisce il prodotto nel suo volantino”.
Il rischio, però, secondo Tirelli, è quello di sprecare risorse comunicando a tutti in maniera indiscriminata senza considerare che magari il proprio prodotto è presente solo in alcune catene: “Il concetto fondamentale della pubblicità è quello che viene chiamato ‘stock of goodwill’, ovvero ‘accumulo di sensazioni positive’. La pubblicità non funziona come stimolo immediato all’azione. Affinché un individuo sia indotto ad agire prendendo in considerazione l’acquisto di un prodotto, occorre che i messaggi pubblicitari siano ripetuti e si accumulino fino a una certa soglia. Insomma, la pubblicità premia chi si fa vedere: impulsi isolati vengono difficilmente memorizzati e spesso vengono cancellati da messaggi più potenti perché invasivi. Ed è difficilissimo misurare l’efficacia di una campagna di advertising in funzione dei trend di vendita. Credo che nessuno ci sia mai riuscito”. Comunque resta il problema di fondo che la comparazione dei prezzi così come la intendiamo non è possibile, considerato che su 450.000 codici ean disponibili, il supermercato ne può ospitare 8-10.000. “Con così tanti prodotti – conclude Tirelli – riuscire a creare un legame tra consumatore e marca è alquanto difficile e la comparazione dei prezzi tra un supermercato e l’altro praticamente impossibile. In un mercato così saturo e combattivo, più che la pubblicità possono venire in aiuto le promozioni mirate che contribuiscono a mettere in relazione il brand con il consumatore finale”.