Secondo un articolo scientifico del Mit ci sono consumatori che, entusiasti delle novità, possono rappresentare una fonte di illusori malintesi, perché in realtà comprano ciò che è nuovo proprio perché è nuovo, non perché necessariamente si rivelerà un prodotto di successo
Decenni di ricerca hanno sottolineato che il feedback dei clienti è l’input più rilevante di tutto il processo di sviluppo di un nuovo prodotto. Quanto più i clienti sono entusiasti di un prototipo, tanto più probabile sarà l’investimento che l’azienda è disposta a fare in un periodo successivo. Tuttavia, quando le imprese terminano le fasi finali del test e del lancio del nuovo prodotto, la metrica si sposta sulle vendite effettive, che possono riservare ovviamente delle sorprese.
Catherine Tucker è un nome sconosciuto alla nostra business community, eppure è l’autrice di un articolo scientifico particolarmente interessante, oltre che decisamente innovativo, pubblicato sul Journal of marketing research dell’American marketing association. L’ipotesi, che sottopose ad analisi critica alcuni anni fa, era apparentemente indiscutibile. Il quesito era: l’avvio molto dinamico di un prodotto appena lanciato alimenta un’ottima probabilità di successo? Chi ben inizia è a metà dell’opera, dice una nostra massima sapienziale.
Però, afferma Catherine nel suo articolo “Harbinger of Failure” scritto con i colleghi del Mit (Massachusetts institute of technology) di Boston, Eric Anderson, Song Lin e Duncan Simester, la conclusione non è così scontata. La gran parte dei marketing manager, spesso troppo occupata in astratte speculazioni teoriche, procede con una semplificazione che suona, com’è di moda, “uno vale uno!”
Purtroppo o per fortuna, ogni atto di consumo deriva da una complessa catena di espressioni culturali soggettive, che si accumulano ed evolvono nel tempo. Dunque la quantificazione e il calcolo probabilistico di un risultato dovrebbero venire successivamente alla comprensione della natura qualitativa del proprio target.
Ciò detto, bisogna convenire che i laboratory product test, le indagini puramente verbali e i focus group hanno tutti il grande limite di dare per scontate l’oggettività e la stabilità della relazione tra gli individui del campione e l’universo rappresentato. In secondo luogo essi considerano risolto un grosso problema di filosofia del linguaggio, cioè che le parole riflettano coerentemente il pensiero strutturato e che questo pensiero guidi le azioni, fra le quali vi sono gli acquisti.
Ebbene, Catherine e colleghi ritengono di aver dimostrato, in base a una notevole quantità di dati empirici, che i clienti precoci ed entusiasti del prodotto siano degli “harbinger of failure” (che si potrebbe tradurre “anticipatori di fallimenti”), ossia fonte di illusori malintesi, perché in realtà comprano ciò che è nuovo proprio perché è nuovo. In altre parole, se un cliente della distribuzione moderna ha comprato Yomo Frutta e Verdura, Alixir, Gran Soleil e altri prodotti che hanno avuto vita breve sul mercato, è molto probabile che abbia, per la sua particolare personalità, una predilezione per i flop. Non solo. Egli tenderà a prediligere, tra i prodotti regolarmente in commercio, quelli più di nicchia.
Al contrario, i clienti che tendono ad acquistare un prodotto di successo come Swiffer (affermano quei ricercatori in base a evidenze statistiche) hanno maggiori probabilità di acquistare altri prodotti di successo come Arizona Iced Tea.
Appurata la validità della scoperta nell’analisi menzionata, basata sul tracciamento degli acquisti di 127.000 clienti in 111 punti di vendita sparsi per gli Usa, restava un problema: com’è possibile prevedere il ruolo assunto da questi consumatori menagramo? Il passaggio dalla conoscenza teorica all’operatività non è semplice. A nostro parere, però, esiste una soluzione che può arrivare dall’uso intelligente di un panel continuativo di famiglie, monitorate per un certo periodo di tempo e profilate sotto l’aspetto socioculturale.
Per dare un’idea della logica sperimentale di questo approccio abbiamo fornito a un campione di famiglie profilate un set di confezioni di vari marchi che si presumeva essere fra i più noti: ciambelline a marchio Mr. Day, Esselunga e Conad; conserve in tubetto Mutti e Star; biscotti Osvego Colussi; grissini Pangrì Barilla e Grissin Bon. In un secondo step alle famiglie è stata offerta la possibilità di ricevere uno dei 4 marchi assaggiati nel primo step, oppure di provare un nuovo marchio, ovvero: ciambelline Gastone Lago; conserva in tubetto Ortolina Piccante; biscotti Osvego Gentilini e grissini Valledoro. In un terzo step venne riconfermata la possibilità di scegliere una tra tutte le confezioni ricevute in precedenza.
In questo modo è stato possibile verificare quali e quante famiglie preferivano la novità al secondo o al terzo step e quante rimanevano fedeli all’innovazione provata al secondo step. Naturalmente un esercizio completo dovrebbe prevedere 6 o 7 step, così da identificare con maggior precisione harbinger, brand loyalist o laggard (ritardatari). Richiamando la deadly statistic degli 8 fallimenti su 10, riteniamo che un approccio sperimentale alla scoperta degli harbinger of failure sia meritevole di un’attenzione critica.
USARE UN PANEL CONTINUATIVO DI FAMIGLIE
Per tentare di arginare il rischio di false aspettative ingenerate da consumatori sempre e comunque entusiasti delle novità, è consigliabile adottare un approccio sperimentale che preveda l’utilizzo di un panel continuativo di famiglie. Le ragioni sono semplici e immediate. La prima è, appunto, la continuità della loro collaborazione al fine di poter tenere traccia della propensione ai flop di ciascuna di esse. La seconda è la loro profilazione socioculturale così da comprenderne il background informativo e le attitudini. La terza è la possibilità di riprodurre l’esperienza di consumo attraverso la simulazione dell’acquisto online da parte delle famiglie del panel.