Industria e distribuzione impreparate alla sfida della customer experience

La complessità dei processi di acquisto e di consumo, in un’epoca di offerta bulimica, non sembra esser colta da attori del mercato vincolati a meccanismi di vendita che risalgono al tempo in cui i prodotti di marca erano capaci di eccitare la fantasia di consumatori non ancora sazi di tutto

Ritorniamo a trattare il tema della consumer experience. È un’espressione inflazionata e richiamata acriticamente in un crescendo di interventi scritti e orali. Il concetto, enunciato con disinvolta superficialità, risulta, però, mal compreso sia dall’industria sia dalla distribuzione, per quanto si continui a insistere nell’affermare che è alla base di ogni futura strategia. Diciamo, allora, che si tratta in primis di un’espressione polisemica e destoricizzata, dalla qual cosa consegue un suo frequente depotenziamento di significato.

Per spiegarci meglio, adottiamo una netta distinzione tra customer experience e consumer experience, sottolineando la differenza che intercorre tra l’esperienza dell’acquisto e quella del consumo. Lo faremo ricorrendo a un semplice esempio. In un supermercato io posso essere sollecitato ad acquistare un alimento surgelato dal pack, dalla promozione, dalla novità. Successivamente consumerò il prodotto a casa, magari con altre persone, in una particolare situazione. I due momenti esperienziali non coincidono. Quindi, il consumatore che c’è in me è subordinato al cliente che sceglie per esso.

Immaginiamoci ora un’altra situazione: acquisto una macedonia di frutta dal banco fresco e poi, oltre la cassa, la gusto seduto a uno dei tavoli all’uscita dell’ipermercato. In questo caso i due momenti esperienziali coincidono e le figure del cliente e del consumatore si confondono.

Dunque, concentrandoci specificamente sulla sola customer experience, possiamo fare riferimento alla schema euristico che abbiamo adottato. Si converrà, infatti, che ogni esperienza di acquisto sarà il punto d’intersezione di almeno tre dimensioni: quella psicologica, quella sensoriale, quella funzionale, relativa alla ripetibilità dell’acquisto. Si concederà anche che la carica emozionale di un’esperienza varia dall’assoluta negatività alla straordinarietà. In entrambi i casi essa risulterà, proprio per questa ragione, archiviata nella memoria di lungo periodo, per permanervi più o meno a lungo. Esperienza e memorizzazione sono pertanto strettamente correlate.

Inoltre, un’esperienza può essere legata alla fisicità dei sensi (fino a divenire multisensoriale) oppure a una proiezione nell’immaginario di certe aspettative. Lo dimostrano i vari flagship store, che non hanno l’esclusiva funzione di vendere, ma anche quella di accrescere e consolidare l’immagine e il desiderio di una marca. Infine, a seconda della vicinanza e dell’accessibilità dei luoghi, l’esperienza risulterà più o meno ripetibile, oppure a volte del tutto irripetibile, ma non per questo meno memorabile.
In conclusione, ogni esperienza d’acquisto sarà il risultato di una combinazione dei tre fattori menzionati.

Dunque, agirà in modo diverso sui vari step di un’esperienza di consumo che dalla immediata percezione con ducono alla cognizione degli attributi del prodotto e alla sua fruizione, per poi passare alla loro memorizzazione più o meno duratura, ovvero al prerequisito fondamentale per conquistare la fedeltà verso la marca o l’insegna.

Tuttavia, è necessario tenere in considerazione che ogni esperienza d’acquisto dipende dalla natura intrinseca di ciascun prodotto. La stimolazione sensoriale che opera sul cliente potenziale si colloca su vari livelli. Una confezione di detersivo o di sale da cucina ha certamente una carica emozionale vicino allo zero. Un profumo o un salume affettato produrranno, invece, stimolazioni sensoriali più evidenti.

Si tratta di concetti elementari, che tuttavia non sembrano rientrare nelle attuali strategie d’industria (fornitrice) e distribuzione (a libero servizio), lega te tuttora al principio del silent selling, ovvero del “buon prodotto che si vende da solo” (se ben pubblicizzato). Se escludiamo la ristrettissima minoranza delle grandi global brand, però, le altre industrie fornitrici di piccole/medie dimensioni, che non possono contare su potenti campagne pubblicitarie e promozionali, vanno incontro a una difficoltà: tendono cioè a individuare il punto di connessione con il sistema distributivo nella figura del buyer. La logica è la seguente: attuata su questa funzione un’opera di convinzione circa la qualità del prodotto e il suo ipotetico gradimento da parte del consumatore finale, il buyer dovrebbe trasferire queste informazioni ai category e ai marketing manager incaricati della in store communication, e questi ultimi al cliente. Vedremo, allora, come tutto ciò diventa ogni giorno più difficile.

La distribuzione italiana, invece, sembra concentrarsi soprattutto sulla razionalizzazione e sull’efficienza delle proprie strutture, e non sembra curare molto lo sviluppo delle proprie competenze in campo merceologico, delegandole di fatto ai propri fornitori.

Ne consegue che, paradossalmente, la nostra distribuzione è in parecchi casi molto avanzata sul piano delle tecnologie front & back end volte al contenimento dei costi (del lavoro, in particolare). Appare invece molto arretrata dal punto di vista dell’aggiornamento sull’innovazione merceologica, frutto di un grandioso sviluppo dei flussi commerciali su scala planetaria.

Si tratta di un vuoto conoscitivo che riguarda nello specifico il settore alimentare, oggi teatro di ciò che chiameremo “food evolvation” (evolution & innovation), cioè un rapido, continuo e pervasivo ampliamento e mutamento dell’offerta, alimentato da ininterrotti e frequenti piccoli adattamenti alle esigenze dei clienti di tutto il mondo. Questa evoluzione poi, è accelerata da qualche radicale mutamento che crea categorie del tutto nuove. Si va dall’esteso assortimento di formaggi, ormai disponibili in centinaia di referenze, così come pure accade con le birre provenienti da tutto il mondo, per arrivare all’impressionante sviluppo assortimentale dell’ortofrutta, capace di mettere in crisi o favorire le diverse agricolture nazionali ed extraeuropee.

In conclusione: sarà possibile, domani, gestire simili cambiamenti senza discostarsi dalla logica secolare del “silent selling”? Questa tecnica di vendita è basata su due assunti: un’offerta relativamente stabile e un cliente perfettamente informato su di essa.

Il self-service concepito da Clarence Saunders nel 1917 (e perpetuato sino ai giorni nostri) presupponeva, pertanto, una customer experience di fatto azzerata e una consumer experience preponderante. Quelli erano, però, i tempi dell’esordio della pubblicità e dei prodotti di marca, capaci di eccitare la fantasia di consumatori non ancora sazi di tutto. Oggi questa fredda logica è adottata e portata all’estremo dalla vendita online, che si fonda su “freddi” cataloghi digitali e la sparizione del negozio fisico. La domanda è dunque questa: potranno avere davvero un proprio ruolo, nel mondo disorientato del grocery, nuovi e diversi luoghi esperienziali?

L’OFFERTA DEL FOOD È SEMPRE PIÙ COSTRUITA PER CLIENTI GLOBALI

Il settore alimentare è oggi teatro della “food evolvation” (evolution & innovation), cioè un rapido, continuo e pervasivo ampliamento e mutamento dell’offerta, alimentato da ininterrotti e frequenti piccoli adattamenti alle esigenze dei clienti di tutto il mondo. Gli esempi sono innumerevoli. Si prendano i formaggi: nel mercato europeo confluiscono produzioni francesi, spagnole, portoghesi, inglesi, che si traducono, nelle grandi città, in banchi dei supermercati con 500-600 referenze, cui si aggiungono formaggi statunitensi e neozelandesi. L’internazionalizzazione dell’offerta è altrettanto evidente per le birre, al punto che un assortimento minimamente adeguato ai tempi dovrebbe partire da 400 etichette. Ancor più impressionante è lo sviluppo assortimentale dell’ortofrutta: le nuove varietà di uva apirene, di mele, di prugne ecc. hanno impatti lenti, ma potenti sulle varie filiere. Mettono in crisi o favoriscono le diverse agricolture nazionali ed extraeuropee, prolungano le stagioni, quando addirittura non le aboliscono.