Vi siete mai chiesti quanto valgono i vostri clienti? E se avete provato a darvi una risposta, quale modello avete utilizzato? Negli anni sono state proposte diverse regole con un denominatore comune: la capacità di transazione del cliente. Pensiamo al modello di analisi rfm (recency, frequency e monetary value) dove si prende in considerazione il valore economico del cliente calcolando il tempo trascorso dall’ultima transazione, la frequenza di acquisto e l’importo di ciascuna spesa. Oppure il cltv (customer life time value), un calcolo previsionale che ipotizza quanto il cliente spenderà in un certo arco temporale, al netto di costi di acquisizione e di retention. Mentre il binomio si articola tra “quanto ha speso e quanto potrebbe spendere in futuro”, le formule dovrebbero tenere conto di una customer journey complessa, comprensiva dei differenti comportamenti del consumatore nell’interazione con i punti di contatto messi a disposizione dalla marca. Si pensi all’interazione del consumatore con la pagina social di un brand, o al passaparola verso la propria rete sociale; la condivisione di un contenuto, una recensione più o meno positiva e, ancora, l’utilizzo di un buono sconto, l’apertura di una dem o la risposta a una survey.
Quello che definisco customer value index (cvi) è un valore che, oltre alla capacità transazionale, tiene in considerazione tutte le variabili comportamentali, assegnando un peso differente a seconda che una certa azione sia compiuta spontaneamente oppure sia stimolata da specifiche comunicazioni della marca. All’interno del cvi possono rientrare anche gli atteggiamenti dell’utente nel percorso di avvicinamento al brand, quando, cioè, costruisce le sue intenzioni di acquisto navigando per esempio sul website dell’azienda. Perché tutte queste azioni non dovrebbero avere un impatto economico? Si tratta di una mole di dati che non può essere ignorata e deve concorrere alla definizione del valore del singolo utente. Il cvi consente al brand di comprendere a colpo d’occhio il valore potenziale dei propri clienti in un dato momento di vita e, unito alla clusterizzazione comportamentale, permette di pianificare comunicazioni mirate per intercettare le necessità di un utente. Un esempio pratico? Una catena di ristoranti interroga parte del suo database per il lancio di un nuovo menu. Il cluster selezionato sarà composto sia da clienti con alto valore transazionale sia da utenti con altro valore di cvi – quindi molto rispondenti e propensi a partecipare a un’attività di crowdsourcing. La stessa catena potrà monitorare che il valore di un utente con forte propensione alla viralizzazione di contenuti è sceso in 3 mesi da cvi 70 a 20 – potrà così inviargli una comunicazione personalizzata per riattivarlo.
In futuro vinceranno quelle aziende che sapranno applicare nuovi modelli al proprio business, imparando ad analizzare customer journey e comportamenti complessi per conoscere i propri clienti e interagire con loro in modo personalizzato, sulla base delle loro potenzialità.