La distribuzione e l’industria di marca sono state la diga che ha retto l’urto di un’epidemia che, solo con il passare delle settimane, ha mostrato la tragica aggressività del virus. Sembrava la solita influenza di stagione, è diventata una pandemia che ha richiesto provvedimenti eccezionali e prolungati. Industria e distribuzione hanno continuato a operare per garantire la produzione e la disponibilità nei punti di vendita di tutti i prodotti food e non food, ma proprio di tutti, perché una torta Viennetta non è meno indispensabile del disinfettante per pavimenti quando non si può uscire di casa e non si possono incontrare amici.
Si è capito che non ci sono prodotti superflui in tempi eccezionali, tutto viene stravolto da nuovi bisogni e da un modo diverso d’intendere le priorità e l’utilità. Mai come in questo frangente è apparso chiaro il ruolo dell’industria, aziende che ci hanno coccolati, allettati, meravigliati, inventando ogni possibile referenza capace persino di anticipare desideri. Se la sovrabbondanza dei prodotti ci disorientava, ora la rivalutiamo in chiave consolatoria.
L’organizzazione modulare della logistica e del sistema dei centri di distribuzione ci ha fatto toccare con mano l’efficienza della distribuzione moderna. Gli scaffali non restano vuoti nemmeno dopo gli assalti di panico da carenza: tutto si riordina e si ritrova dove siamo abituati a vederlo. Le cassiere sorridono sebbene stremate da lunghi turni. Il personale ai banchi serviti continua a dialogare, a consigliare e a stuzzicare con le proposte della gastronomia. Le promozioni procedono, le tessere delle raccolte punti si “gonfiano” giacché gli importi medi di spesa sono cresciuti. Tutti a casa consumano di più. Da quante decine d’anni alle famiglie italiane non capitava più di riunirsi per la prima colazione, il pranzo e la cena?
Industria e distribuzione stanno facendo la loro parte, ma anche alcune grandi famiglie, esponenti del capitalismo borghese, così spesso superficialmente quanto insulsamente criticato, si stanno impegnando con donazioni consistenti. Famiglie che hanno creato e portato avanti da generazioni i più illustri brand dell’industria di marca così come del retail. Sono donazioni che trascendono i programmi di social corporate responsibility. Anzi, sarebbero proprio da tenere separati da questi. La csr fa ormai parte della governance di ogni grande azienda. I programmi di responsabilità sociale stanno ridefinendo le condizioni di salute e di sicurezza per chi ha dovuto continuare a lavorare in azienda o ha optato per il telelavoro, così come riguardano la gestione dell’ambiente. Le donazioni a titolo personale di molti imprenditori sono una scelta liberale che ha una ricaduta sociale ampia. Gli enti cui sono destinate sono principalmente quelli che operano nella sanità e nella ricerca, cruciali in questo momento. Il beneficio sarà di lungo periodo e per molti. Plaudiamo al basso profilo volutamente tenuto da alcuni grandi donatori.
Andrea Demodena
Dopo la frequenza di Economia e commercio in Cattolica, si iscrive a Lettere Moderne, presso l’Università Statale di Milano, laureandosi a pieni voti con una tesi in storia dell’arte contemporanea. Come giornalista ha collaborato con Juliet, Art Show, Tecniche Nuove, Condé Nast, Il Secolo XIX, Il Sole 24Ore. Dal 2000 si occupa di marketing e promozioni. Dal 2014 è direttore di Promotion.