Apprendimento, interesse, ricordo e, premessa a tutto questo, attenzione: sono state queste le colonne portanti di strategie d’investimento media e gli assunti per campagne pubblicitarie, prima che internet cambiasse le regole del gioco. Sono state anche oggetto di studi, dalla seconda metà dell’800, in parallelo alla crescita e alla diffusione della comunicazione pubblicitaria. L’obiettivo era chiaro: non sprecare nemmeno un centesimo, mirare con precisione chirurgica al target, quello specifico per ogni brand. Sono nate, decennio dopo decennio, sperimentazioni (per esempio su stimolo e attention getting) e tante ricerche.
Per anni metodologie hanno guidato la creazione di campagne, soppesato gli acquisti media, calibrato la pressione pubblicitaria portando al successo brand che, ancora oggi, possono vivere di rendita di posizione. C’era anche una cosa che si chiamava “esposizione”, ovvero televisione, radio, quotidiani e riviste, affissione garantivano alle aziende che il target veniva esposto al messaggio, lo vedeva, lo ascoltava, magari distrattamente, ma tanto c’era un’altra cosa che si chiamava “frequenza”, che aveva un “impatto” sul target perché gli ricordava periodicamente il messaggio. Si faceva brand mapping, si faceva segmentazione, cluster analysis e via elencando i tanti strumenti a disposizione per catturare (termine bellicoso, oggi forse non più proponibile) il consumatore (specie estinta e sostituita da persone pensanti e agenti in tanti contesti). “Gone with the wind of Internet”, tutto è stato spazzato via, disgregato. Resta la necessità delle aziende e delle loro marche di raggiungere le persone, di farsi notare, di ricevere attenzione perché devono dialogare (e non solo vendere prodotti); le imprese hanno bisogno di ricevere riscontri (altrimenti non riescono a essere customer centric). Nel mondo fluttuante del web, nell’iperconcentrazione di stimoli, nel frastuono confuso dentro e fuori dal web, che fine ha fatto l’attenzione? Nonché il ricordo, la comprensione, la capacità di scelta, l’awareness, quella consapevolezza attiva con cui si aderiva al mondo del brand? Negli ultimi vent’anni c’è stata una nutrita produzione di studi sull’attenzione, attività cognitiva di fondamentale importanza poiché consente, in primis, la sopravvivenza, e poi di vivere meglio, selezionando e rielaborando stimoli, input di varia natura.
78L’attenzione è diventata un bene raro, messo in pericolo da una sovrabbondanza di segnali on e offline, per chiunque difficile da gestire con consapevolezza, in modo selettivo e vigile.
La penuria d’attenzione ha ripercussioni sulla memoria: quella temporanea del nostro cervello è intasata da sollecitazioni, esperienze e dissonanze e, alla fine, tutto si elide, spesso si procede per automatismi. L’economia dell’attenzione si sta facendo largo. Non fornisce ricette e soluzioni, per ora studia e approfondisce. Promotion Magazine, dopo il recente convegno, le dedicherà ancora spazio.
Andrea Demodena
Dopo la frequenza di Economia e commercio in Cattolica, si iscrive a Lettere Moderne, presso l’Università Statale di Milano, laureandosi a pieni voti con una tesi in storia dell’arte contemporanea. Come giornalista ha collaborato con Juliet, Art Show, Tecniche Nuove, Condé Nast, Il Secolo XIX, Il Sole 24Ore. Dal 2000 si occupa di marketing e promozioni. Dal 2014 è direttore di Promotion.