I consumatori apprezzano che le proprie marche si schierino apertamente e anche i dipendenti e i manager mostrano di essere favorevoli all’impegno delle loro aziende in termini di responsabilità sociale. Ma le aziende si troveranno sempre più spesso a dover decidere a favore di quali cause schierarsi
La campagna Stop Hate for Profit, posta in essere a luglio da parte di molte aziende inserzioniste pubblicitarie contro Facebook, ha ottenuto una notevole risonanza da parte dei mezzi di comunicazione, e non solo presso quelli specializzati nell’ambito del marketing. Se la prima a partire è stata North Face, seguita a ruota da Rei, Patagonia e dalla piattaforma per freelance UpWork, a metà luglio erano già oltre 500 le aziende che avevano aderito, tra cui Ford, Adidas, Reebok, Clorox, Patreon, le marche di Conagra, Denny’s, SodaStream, Edgewell Personal Care, Starbucks, Ben & Jerry, Levi Strauss, Lululemon, Magnolia Pictures, Viber, Habitat for Humanity, JanSport, Birchbox. Nel frattempo Microsoft, senza fare tanto rumore, aveva già iniziato a maggio a tagliare gli investimenti su Facebook, che lo scorso anno erano valsi un fatturato di 115 milioni. Il boicottaggio è stato poi esteso da alcuni a Instagram e WhatsApp, da altri a tutti i social network incapaci di moderare contenuti e tono delle conversazioni in rete. E talune aziende hanno già lasciato intendere che il taglio non sarà circoscritto al mese di luglio. Ricordiamo che il valore derivante dalla vendita della pubblicità digitale di Facebook nel 2019 è stato di 69,7 miliardi di dollari, un valore inferiore solo a quello di Google.
Inutili per ora i tentativi di difendersi da parte dei diretti interessati, che pure hanno un’evidente responsabilità sociale, vivendo e facendo profitti grazie ai contenuti prodotti dagli utenti, senza peraltro assumersi la responsabilità della qualità, veridicità e liceità di quanto veicolato al pubblico, diversamente da quanto richiesto agli editori classici, spesso anche a livello normativo. L’incontro virtuale tra i vertici di Facebook e gli inserzionisti “ribelli”, infatti, è stato definito da questi ultimi insoddisfacente al punto da lasciar ventilare l’ipotesi di un’attività di audit indipendente per quanto riguarda le pratiche del social network a proposito di diritti civili.
Servirà quest’iniziativa a migliorare una situazione che è andata deteriorandosi progressivamente nel corso degli anni, dando voce a odi e rancori che mostrano gli aspetti peggiori del genere umano? Non mi azzardo a formulare delle ipotesi, anche perché non è tanto questo l’aspetto della vicenda che desidero sottoporre all’attenzione del lettore, quanto il crescente impegno pubblico da parte delle imprese, che sempre più spesso assumono posizioni precise, comunicate in modo forte, di fronte a fenomeni sociali, politici ed economici. Ciò in modo coerente con i purpose aziendali enunciati, per lo più inerenti al tema della responsabilità sociale e in linea con le aspettative del pubblico, che da tempo reclamava l’assunzione di impegni precisi rispetto alle maggiori criticità che l’umanità si trova a dover affrontare a livello globale. Già sul finire del 2018 Edelman Trust Barometer aveva scoperto che 8 persone intervistate su 10 preferivano che le proprie marche si schierassero apertamente. Uno studio condotto di recente da Gfk negli Stati Uniti ha confermato la tendenza. Infatti, nella classifica dei valori degli americani “la tolleranza sociale” è passata dalla diciannovesima alla dodicesima posizione tra il 2009 e il 2020. “L’uguaglianza” dalla ventiduesima alla tredicesima. Il 68% degli intervistati pensa poi che oggi vi sia un minor senso della comunità rispetto a 10 anni fa. E solo il 35% ritiene che le aziende parlino sinceramente, anche se c’è da dire che non supera il 25% la quota di coloro che concedono lo stesso al governo.
Da ciò discende che, in futuro, il 74% degli statunitensi sceglierà di acquistare i prodotti e i servizi delle aziende che stanno prendendo posizione a favore delle proteste di questi giorni. E siccome il livello d’attenzione sul tema sta crescendo, il 67% si è già accorto che molte aziende stanno sposando la questione razziale per la prima volta. Mentre il 59% riconosce che alcune sono diventate un punto di riferimento durante la protesta. Non si tratta allora di una coincidenza quanto di un rapporto causa/effetto se un’altra ricerca, condotta da Weber Shandwick, ha scoperto che il 53% dei dirigenti marketing e communication da qualche anno sta dedicando più tempo a discutere i temi della responsabilità sociale, che il 62% ha un’opinione migliore del proprio ceo quando questi assume un ruolo attivo nei dibattiti generati intorno ai grandi temi e il 67% è convinto che ciò abbia un impatto positivo sulla reputazione dell’azienda per cui lavora.
Da qui l’impegno assunto nei giorni passati da molte aziende e marche a favore di Black Lives Matter e di tutte quelle organizzazioni pacifiche che combattono le discriminazioni nei confronti delle minoranze di ogni genere. Tema che, riguardando il rapporto tra le aziende/marche e il proprio pubblico, coinvolge ovviamente anche il percepito e il vissuto da parte dei dipendenti presenti e futuri. Non sorprende quindi che la Career Interest Survey condotta di recente da National Society of High School Scholars, coinvolgendo oltre 14.000 studenti appartenenti alla generazione Z, abbia scoperto che questi aspirano ad andare a lavorare in aziende impegnate sui temi della sostenibilità ambientale, dove alle donne vengono riconosciute posizioni di top management, si rispettano i diritti delle minoranze, si pone attenzione ai diritti umani e all’istruzione e, infine, si ha a cuore il benessere e la salute delle persone.
Tuttavia, se i clienti e i dipendenti delle aziende inserzioniste sono poi anche gli utenti dei media – digitali e non – ecco che la partnership tra investitori pubblicitari e veicoli di comunicazione rischia di trasformarsi in un rapporto conflittuale per il controllo dei contenuti e la conquista del primato sul pubblico in termini di fiducia e di consenso. Non è un caso, allora, che uno studio condotto dalla società d’intelligenza artificiale e computer vision GumGum insieme a Digiday nel 2019 abbia rilevato che il 47% dei responsabili aziendali era ancora preoccupato per la sicurezza dell’integrità d’immagine dei brand quando si avventurano in rete. Anche se nel 2017 era addirittura il 90% a manifestare preoccupazione, bisogna riconoscere che ancora quasi la metà delle aziende inserzioniste ha la percezione che le marche corrano dei rischi quando cercano di comunicare online. E ciò nonostante le contromisure adottate nel frattempo dagli investitori e dalle loro agenzie media in termini di black list, white list e keyword blocking; contromisure che, avendo maglie piuttosto strette, tendono peraltro a censurare anche più del dovuto.
Appare abbastanza ovvio che, al di là delle prese di posizione di tipo politico e sociale, agli inserzionisti interessa che il messaggio indirizzato al proprio pubblico sia veicolato da un mezzo adeguato, nell’accezione più completa del termine, per non rischiare che i propri investimenti portino risultati controproducenti. In tal modo si viene a creare l’esigenza di un tipo di controllo che ricorda, per certi versi, il rapporto tra produttori e distributori per quanto riguarda la comunicazione, la collocazione dei prodotti sugli scaffali o nelle vetrine virtuali e la gestione dei prezzi, destinato a sfociare spesso in bisticci che, non di rado, hanno a che fare con la presunzione di poter stabilire a chi appartiene il cliente. Che in realtà non è proprietà di nessuno, quanto piuttosto giudice indipendente in grado di sancire il successo e la supremazia dell’una o dell’altra parte. Ma – perché no? – anche di entrambe.
Il parallelo non è casuale, in quanto le similitudini nei rapporti tra i diversi player della filiera si estendono all’aspetto del controllo delle informazioni relative ai clienti. Infatti, tutte le marche che non praticano il modello di business “direct to consumer” non dispongono in piena autonomia dei dati relativi ai profili della clientela e ai suoi comportamenti, sia per quanto riguarda i processi d’acquisto nei punti di vendita on e offline sia per quello che concerne la navigazione in rete. Se poi i social network, in particolare, non si pongono più come strumenti grazie ai quali incrementare la propria notorietà di marca, costruire la propria immagine e il posizionamento, quanto piuttosto come mezzi di “direct response”, grazie alle loro funzionalità shoppable, ecco che il cerchio si chiude e certi paralleli suggeriti si giustificano ancora di più. Se le ricerche citate non mentono, pare quindi chiaro che il pubblico, inteso sia come clienti sia come collaboratori, utilizza ormai una gamma piuttosto ampia di parametri per accordare la propria preferenza a una marca o a un’azienda. Così, oltre al prezzo o allo stipendio, alla qualità dei prodotti o del proprio lavoro, alla comodità, all’esperienza maturata nelle relazioni, diventa indispensabile prendere in considerazione gli altri fattori, spesso psicologici, che condizionano la percezione complessiva di un’azienda o di una marca, rendendo il saper far bene il proprio mestiere una condizione sì necessaria, ma non più sufficiente.
E se riconosciamo che saper comunicare è almeno altrettanto importante, possiamo prevedere che le aziende si troveranno sempre più spesso a dover decidere a favore di quali cause schierarsi, tenendo conto di almeno tre fattori. Innanzitutto, la coerenza di fondo con il posizionamento e l’immagine comunicati, poi quella con i comportamenti effettivamente tenuti (“walk the talk”) e, infine, le conseguenze di medio termine della propria presa di posizione. Perché, ovviamente, è molto difficile accontentare tutti.
DIVENTA STRATEGICO IL CONTROLLO DELLA COMUNICAZIONE
L’esigenza degli inserzionisti pubblicitari di veicolare il messaggio indirizzato al proprio pubblico in modo adeguato emerge anche nel rapporto tra produttori e distributori per quanto riguarda la comunicazione, la collocazione dei prodotti sugli scaffali o nelle vetrine virtuali e la gestione dei prezzi, destinato a sfociare spesso in bisticci che, non di rado, hanno a che fare con la presunzione di poter stabilire a chi appartiene il cliente. Che in realtà non è proprietà di nessuno, quanto piuttosto giudice indipendente in grado di sancire il successo di una parte o di entrambe. Il parallelo non è casuale, in quanto le similitudini nei rapporti tra i diversi player della filiera si estendono all’aspetto del controllo delle informazioni relative ai clienti. Infatti, tutte le marche che non praticano il modello di business “direct to consumer” non dispongono in piena autonomia dei dati relativi ai profili della clientela e ai suoi comportamenti, sia per quanto riguarda i processi d’acquisto nei punti di vendita on e offline sia per quello che concerne la navigazione in rete.
Filippo Genzini
Ho sempre lavorato nel settore dei servizi innovativi di marketing per le aziende del largo consumo e - in particolare - del retail, sia sul fronte della marketing intelligence sia su quello della comunicazione, con una focalizzazione sull’approccio customer centric. Hobby prediletti: la scrittura e la musica. genzini@admirabilia.it www.ilcommissariozarotti.com