Di tutte le forme della comunicazione, le iniziative premiali appaiono come le più tartassate dal punto di vista dei vincoli amministrativi e delle imposizioni fiscali. Pur rappresentando uno strumento a disposizione delle aziende sempre più strategico per creare una relazione diretta con il target, non sono favorite dalla normativa vigente. Ed è un peccato, perché solo le attività di concorso a premio o operazione a premio e fidelizzazione consentono alle aziende di stabilire un rapporto di causa effetto che coinvolge, in una relazione biunivoca, l’azienda e il suo target attraverso diversi sistemi: “tu acquisti e io ti consegno un regalo”; “tu partecipi acquistando e compilando il form – e magari mi dai anche il consenso per utilizzare i tuoi dati – e io ti faccio partecipare a un’estrazione nella quale potresti vincere un super premio”; “se fai un post con l’hashtag del concorso potresti vincere il mio prodotto” e così via. Si tratta di forme di comunicazione che permettono alle aziende di creare ingaggio fra i propri consumatori, di ottenere visibilità, di stimolare gli acquisti, di aumentare la conoscenza del brand e magari di mettere in moto meccanismi di viralizzazione.
Il nostro pubblico obiettivo, se opportunamente premiato, è disposto a coinvolgere i suoi amici, a comprare il nostro prodotto piuttosto che quello della concorrenza e magari, se interessato, anche a concederci l’uso dei suoi dati per restare in contatto con noi. La forza di questa formula promozionale sta proprio nel do ut des che si esprime con una promessa del promotore e il ricevimento di un premio da parte del consumatore, che giuridicamente configura per sua natura un reddito tassabile. E non è per compensare la loro efficacia promozionale o la loro economicità di implementazione né per favorire le altre forme promozionali che lo Stato tassa i premi dei concorsi. La ratio trova le sue fondamenta nei concetti basilari dell’imposizione fiscale, che sottopone a tassazione qualsiasi forma di reddito. Come indicato nell’articolo 67 co.1 lettera d) del Tuir, infatti, insieme alle plusvalenze e ad altri tipi di proventi troviamo espressamente citate “le vincite dei concorsi a premio” come appartenenti alla categoria di “redditi diversi”. È legittimo presumere che la volontà del legislatore fosse unicamente quella di non tralasciare alcun tipo di cespite e non quella di penalizzare una forma di comunicazione rispetto ad altre che non offrono premi o omaggi che possano rappresentare un valore reddituale per chi li riceve. Questa ratio è avvalorata dal fatto che lo stesso tipo di significato reddituale, seppure non universale, viene dato ai premi derivanti dai concorsi in molti altri paesi. In Spagna, in Portogallo, in Polonia, in quasi tutti i paesi del Sudamerica e molti altri, i premi vinti con i concorsi sono assoggettati a tassazione. In alcuni paesi, come per esempio gli Stati Uniti, tale obbligo ricade direttamente sul vincitore senza possibilità per il promotore di accollarsene l’onere e con la conseguenza di limitare l’appeal del premio per il pubblico, soprattutto quando questo è di grande valore economico.