Che la concorrenza tra insegne della distribuzione sia agguerrita è dire una banalità. Specificare che tipo di concorrenza prevalga lo è un po’ meno. Misurarne l’intensità e l’evoluzione nelle specifiche arene è compito arduo. Pertanto, non resta che scomporre il problema e formulare ipotesi criticabili. Certamente dobbiamo convenire che i criteri per misurare la concorrenza tra le aziende industriali non si possono estendere a quelle che distribuiscono. Farlo sarebbe fuorviante. La competizione tra marche di prodotti seriali consente un’assunzione: la qualità dell’offerta è nota alle famiglie consumatrici, è stabile nel tempo e ripetutamente sperimentabile. In pochi casi il confronto si svolge a tutto campo, sul piano nazionale, se non internazionale. In tanti altri esso avviene in ambito locale, circoscritto e determinato dagli assortimenti delle poche insegne disponibili per le famiglie che vivono all’interno delle varie isocrone; una condizione che comunque non contraddice le premesse già menzionate.
Per i retailer tutto questo non vale. Vediamo perché. In primo luogo, un’insegna è legata a un luogo fisso dove fronteggia un plesso di concorrenti che varia in ogni altra analoga collocazione spaziale (o isocrona, appunto). In secondo luogo, la sua offerta è eterogenea: è una combinazione di migliaia di voci mutevoli nel tempo e in gran parte differenti (per marche, formati, gusti) da quelle proposte da altri. Ciò significa che il processo psicologico di scelta del cliente è radicalmente diverso da quello del consumatore (utilizziamo per questo due termini diversi riferibili allo stresso individuo) posto di fronte all’ aut-aut di marche tra loro sostitutive. In terzo luogo, contrariamente alla concorrenza tra brand, che come si è detto costituiscono entità predefinite e chiuse in se stesse, il confronto tra retailer coinvolge un grande insieme di merci qualitativamente diverse, tra cui i prodotti deperibili, sfusi o autoprodotti. Carni, pesce, ortofrutta, elaborazioni gastronomiche, ma anche prodotti che hanno contenuto di design, tecnologia e/o di moda implicano un indefinibile, soggettivo criterio di valutazione da parte di ciascuno di noi, un criterio che fonde inestricabilmente due espressioni del valore economico: la qualità e il prezzo. Attenzione, però.
Sbaglia chi pensa di poter misurare la competitività tra retailer in modo oggettivo, paragonando semplicemente i prezzi esposti
Inconsciamente, la business community tende ad applicare gli assunti semplificati della “teoria neoclassica del consumo” anche alla scelta del punto di vendita, adottando il presupposto di una perfetta informazione nelle scelte del cliente (che ricordiamo non è il consumatore). Ed è sbagliato. Banalmente, io, senza dubbio, conosco la qualità di Coke e Pepsi, di Barilla e De Cecco, perché ho consumato queste marche tante volte, perché sono influenzato dalla pubblicità e così via. Posso assumere allora che la mia scelta, se mi sono offerte entrambe, dipenda essenzialmente dai loro prezzi. Prendiamo invece due costate di manzo offerte da Eurospin e da Esselunga. La mia scelta è diversa e assume un carattere probabilistico. In primo luogo, e in qualche modo, quantificherò la probabilità che la costata dell’una sia superiore per sapore, succosità, provenienza, requisiti salutari ecc. rispetto all’altra; cioè che mi piaccia un poco o molto di più. Quindi, in base a questo calcolo inesprimibile, valuterò se il suo maggior prezzo sia giustificato e accettabile in base alla mia propensione a spendere il denaro che possiedo. Ciò implica una differenza. L’esperienza di consumo ripetuta di Pepsi o Coke consolida la mia percezione del “valore” dell’una e dell’altra, e riduce la questione al mero prezzo. Quando parlo di arance, lasagne, ossibuchi ecc., invece, la mia percezione del valore di quel che mi viene offerto resta comunque “fuzzy”, imprecisa.
In conclusione, quando sono davanti allo scaffale risolvo rapidamente il dilemma della scelta in base al prezzo. Quando devo decidere se entrare in Conad o in Coop o in Md il mio processo valutativo diventa molto, molto più complicato. Infatti, qual è il valore (qualitativo) nell’una o nell’altra insegna, dell’insieme costituito da: 1 kg di carne bovina, più 1 kg di kiwi, più 3 etti di prosciutto affettato, più 4 pezzi di pane, più una confezione di passata Marrazzo sostitutiva di una Petti (o viceversa), poiché gli assortimenti sono diversi? La risposta è: “a priori, dall’esterno della sfera psicologica di ogni individuo, non lo sappiamo”, come accade per tante altre cose nella vita, dalla scelta del partner a quella della carriera lavorativa, di un’opera teatrale ecc. O meglio, ciascuno lo sa, ma istintivamente, senza fare calcoli precisi ed espliciti. Per questo, il tentativo puerile e fallace, ma ampiamente diffuso, di misurare la competitività tra retailer “dall’esterno”, in modo oggettivo, paragonando semplicemente i prezzi esposti, resta tale. Propongo quindi una nuova metrica, una metrica che si riferisca semplicemente alla valutazione soggettiva del goodwill, cioè della reputazione delle insegne sedimentata tra la clientela e resa esplicita da parte dei clienti.
Il goodwill si misura attraverso i giudizi espressi dalla clientela che frequenta i retailer
Il goodwill è facile da quantificare, raccogliendo semplicemente i giudizi espressi dalla clientela per conoscere la sua predisposizione ad acquistare in una certa insegna perché ritiene di ricevere una qualità delle merci e dei servizi più alta, rispetto a ogni altra alternativa disponibile a parità di prezzo (o un prezzo più basso a parità di qualità). Vanno menzionate poi anche altre componenti non legate alla merce, come il parcheggio coperto, il “bazar non prevedibile”, le sagre nazionali o regionali, la possibilità di usare i buoni pasto per il pagamento della spesa; insomma, altre componenti dell’offerta che impattano sull’esperienza complessiva dello shopping e che aggiungono valore al tempo speso, sebbene non a ciò che il cliente porta a casa. In sintesi possiamo affermare che la forza di un retailer dipende, proprio per la complessità del processo psicologico di scelta, dal goodwill accumulato nel tempo. Da esso dipendono la frequenza delle visite e l’entità degli acquisti. Avendo a disposizione questo dato, è possibile – sulla base dell’indice di concentrazione dei concorrenti in un determinato territorio – calcolare l’indice di dominanza di un’insegna (ossia la capacità di dominare un mercato) e metterlo in relazione con la capacità di soddisfare la propria clientela. Cosa che abbiamo fatto utilizzando il database del Cx Store di Promotion che ci permette di misurare il goodwill assoluto e il goodwill relativo delle insegne a livello nazionale.
Fatti i dovuti calcoli, emerge che i rapporti tra competitor rispondono a una certa regolarità, la concorrenza si struttura secondo un criterio comune; in particolare si evidenzia come la capacità di dominare il mercato sia strettamente legata al goodwill relativo (ossia al numero di clienti soddisfatti di una data insegna in rapporto al numero di clienti che la frequentano), in una relazione che cresce esponenzialmente: al crescere del goodwill relativo, cresce in maniera esponenziale l’indice di dominanza in una determinata area. Un aspetto interessante di questo indice è la sua natura “scale-free”, cioè i dati seguono la stessa regola indipendentemente dalla grandezza dell’arena competitiva prescelta (città, regione, area…). La seconda rilevazione del Cx Store, che sarà effettuata nel corso del 2021, ci permetterà di verificare se i parametri calcolati si sposteranno in su e in giù lungo la curva, evidenziando la variazione della dominanza delle singole insegne e riassumendo in maniera sintetica i risultati di ogni strategia aziendale. Ma quale può essere l’utilità di questi semplici calcoli? Dovrebbe esistere la possibilità di rapportare questo indice alla produttività delle aziende e ad altri dati oggettivi, quali l’entità degli scontrini, la numerosità delle visite dei clienti ecc., come suggerisce il senso comune. Più elevata è la dominanza migliori saranno le performance economiche di una data impresa. Soprattutto, si potrebbe evidenziare l’esistenza per alcuni del noto problema del “double jeopardy” (il doppio rischio di una bassa penetrazione e frequenza) che affligge i retailer più deboli. Un fenomeno importante che merita spazio e un prossimo articolo.
Un indice per misurare la “dominanza” di ciascun player
I dati raccolti nel 2020 nel corso del monitoraggio Cx Store ci hanno permesso di conoscere il goodwill assoluto (il numero di clienti soddisfatti di un’insegna della gdo rispetto al numero di clienti presenti in una determinata area) e il goodwill relativo (il numero di clienti soddisfatti della medesima insegna in rapporto al numero di clienti che la frequentano). Avendo a disposizione questi dati, si può misurare la “dominanza” competitiva di ciascun player, utilizzando un calcolo matematico che adotta una metrica sperimentale che abbiamo chiamato indice Tst (perché ideato da D. Tirelli, B. Sfogliarini, L. Tirelli).
Facciamo un esempio: siano 100 i clienti potenziali di una certa area e 35 quelli che riconoscono una data insegna come la migliore (goodwill assoluto del 35%). Poniamo che i restanti 65 distribuiscano le loro preferenze in due modi diversi: nel primo caso, un’altra insegna ottiene il 25% delle preferenze (main competitor), 5 insegne il 2% ciascuna, le altre 30 l’1% ciascuna; nel secondo caso, due main competitor dell’insegna leader detengono un goodwill del 10%, 8 ne raccolgono il 5% ciascuno e gli altri 5 l’1% ciascuno. In entrambi i casi, il goodwill si suddivide sempre 35 a 65 tra l’insegna migliore e gli altri, ma quale situazione è più favorevole? Per saperlo ci avvaliamo dell’indice di Herfindhal-Hirschman (indice Hh), ampiamente utilizzato negli studi di economia industriale, che combina due aspetti: la rilevanza di ciascuna impresa e la numerosità degli attori. Il suo calcolo è semplice, basta elevare al quadrato le quote di goodwill assoluto dei concorrenti e sommarle. Nella prima situazione l’indice Hh dei concorrenti dell’insegna leader risulterà 675 (ossia 25 x 25 + 5 x 4 + 30 x 1), nel secondo caso l’indice Hh sarà invece uguale a 405 (ossia 2 x 100 + 8 x 25 + 5 x 1). A questo punto, per ottenere l’indice di dominanza, applichiamo la metrica Tst che prevede di elevare al quadrato anche il goodwill assoluto dell’insegna considerata migliore (35 x 35 = 1.225), dividendolo poi per l’indice Hh dei concorrenti: nel primo caso avremo 1.225: 675 = 1,8; nel secondo 1.225: 405 = 3. Ne discende che in quest’ultimo caso l’insegna leader ha un indice di dominanza più alto, quindi ha più potere di mercato e maggiore forza verso i concorrenti. Nel grafico sono riportati sull’ordinata i risultati dell’indice Tst di dominanza delle insegne prese in considerazione dal monitoraggio Cx Store messo in relazione con il goodwill relativo delle stesse (indicato in ascissa). Per fare un esempio, Esselunga nell’area di Lucca-Massa risulta possedere un goodwill assoluto del 51% e un goodwill relativo del 59%. Il calcolo dell’indice di dominanza tiene conto di una concorrenza che nel suo complesso ottiene un indice Hh di 456. Se eleviamo al quadrato il goodwill assoluto, otteniamo la cifra di 2.602, che suddivisa per l’Hh di 456 fornisce un indice di dominanza del 5,7. Da notare come Esselunga, nell’arena di Milano città metropolitana, ottenga sempre l’indice di dominanza più alto (9,9) in quanto il suo goodwill assoluto è oltre il 50% e i suoi concorrenti hanno una quota del 6% a decrescere. Seguono tutte le altre insegne, come per esempio Conad/Cia nell’area di Ravenna-Rimini, collocate lungo una linea che rappresenta una funzione di potenza, che mostra come la forza competitiva dell’insegna più apprezzata in una determinata area aumenti in modo più che esponenziale in rapporto al goodwill relativo.