Il mondo delle ricerche è tuttora carente nell’interpretare in modo pragmatico la spesso contraddittoria relazione tra giudizi espressi sui social network e i criteri adottati dai clienti nella scelta delle insegne commerciali.
Lo spunto per questa riflessione è la grande eco di un’indagine condotta da una nota associazione di consumatori sui prezzi dei supermercati più convenienti e il suo strascico di commenti su vari social media.
Non è tanto la questione di quali siano le insegne in cui si risparmia di più o di meno a interessarci; è piuttosto lo spaccato delle opinioni di coloro che ne dibattono su Facebook e altrove, nel variegato mondo dei social. Quella nutrita sequenza di giudizi costituisce una cartina al tornasole dei tratti della cultura popolare riferita ai fatti apparentemente banali della spesa quotidiana delle nostre famiglie. Ma facciamo un passo indietro. Un leitmotiv ricorrente delle concioni su “consumi & consumatori”, almeno in epoca pre Covid, era il paradigma del cliente (al singolare ahimè) “sempre più informato e razionale”.
I consumatori non sono solo tali; in parte sono anche terrapiattisti, complottisti, no vax, xenofobi, ortoressici, gourmet, vegani ecc.
Banalmente, a miliardi di individui è stata data, doverosamente, non solo la libertà d’opinione, ma anche la possibilità di comunicarla, coram populo e senza sforzo, tramite i social network, e questo fanno, consentendoci di conoscerli meglio. In quanto clienti della distribuzione moderna, essi si rivelano in buona misura anche superficiali, smemorati, illogici, contraddittori, approssimativi, irriconoscenti tanto per dire.
Si pone pertanto l’interrogativo su quale relazione esista tra le libere e spontanee espressioni del linguaggio iperbolico che i clienti usano per esternare nei blog e nelle chat la sintesi del loro impegno valutativo delle insegne commerciali e le azioni che intraprendono decidendo dove e come spendere. In breve, il mondo delle ricerche è tuttora carente di una semantica di questi stili comunicativi particolari, da traslare poi in una prammatica osservabile empiricamente.
Vediamo un estratto di tante opinioni sui vari supermercati riportate dalla pagina Facebook di “Il Fatto Quotidiano”: “Sconto del 50%, ma non ti sei accorto che ieri lo stesso prodotto costava lo stesso, quindi lo ha aumentato del 40%, ecco come ti gabbo il cliente che non sa comprare”; “Ma come mai hanno prezzi più bassi? Forse perché non sono prodotti della filiera italiani o sfruttano il lavoro nero o la loro posizione di grande distribuzione imponendo prezzi stracciati ai produttori”; “Le catene della gdo che risultano più convenienti lo sono grazie ai produttori che strozzano e che a loro volta strozzano i propri collaboratori. Nessuno regala niente a nessuno. Bisogna acquistare dai produttori”; “Prezzi esposti che non corrispondono alla cassa, senza parlare dei prodotti che si stanno ridimensionando, carta igienica, merendine, marmellate…”; “La convenienza in un periodo difficile come questo è importante, ma vorrei ricordare a tutti che mangiare bene a km 0, soprattutto verdure e frutta, ci mette al riparo da malattie brutte come il Covid”; “Ma guarda un po’… il supermercato che per primo ha cominciato a lasciare a casa i dipendenti non iniettati con il vostro siero sperimentale”.
Ogni cliente è un unicum predisposto ad agire d’impulso, ma anche soggetto a una propria razionalità
Scarterei l’idea di considerare tanti simili contributi informativi come folklore. Tutto concorre a distillare conoscenze utili nella difficile arte del marketing information management. Ogni cliente è un unicum ed è, allo stesso tempo, ricettivo di tanti meme, predisposto ad agire d’impulso, ma anche soggetto a una propria razionalità. Ed è proprio la natura di questa razionalità lo snodo da cui far partire ogni ragionamento. La teoria microeconomica ritiene di poter utilizzare una “funzione del consumo” assiomaticamente basata su pochi principi: i prezzi sono un segnale della qualità; le scelte dei consumatori sono guidate da questi segnali; esse non sono contraddittorie, ovvero non accade che, preferendo A a B e B a C, C sia preferito ad A. In sintesi, le scelte d’acquisto rivelano preferenze coerenti, stabili nel tempo e aggregabili.
Isaiah Berlin affermava che in ciascuno di noi esiste un sé superiore, razionale e riflessivo, capace di agire moralmente e di assumersi la responsabilità di ciò che fa. Esiste però anche un sé inferiore, il sé delle passioni, dei desideri irriflessivi e degli impulsi irrazionali. Si è liberi, quindi, quando il proprio sé superiore e razionale ha il controllo e non si è schiavi delle proprie passioni o del proprio sé meramente empirico. Ma come conciliare il tutto con la nota affermazione per cui “il cliente è libero di scegliere e ha sempre ragione”?
La questione riguarda anche la ricerca di mercato: può essa effettivamente decodificare i presupposti delle scelte dei consumatori, per esempio per le innovazioni di prodotto, e valutare, a priori, l’efficacia dei mezzi a disposizione del marketing per indirizzarle “correttamente” nella giusta direzione? In quali dinamiche psicologiche vengono coinvolte le marche e i beni di largo e generale consumo dall’emergere del “sé inferiore” di Berlin, dell’empirismo soggettivo di milioni di individui che rifiutano quello scientifico dei vaccini, che credono alle “prove provate” della terra piatta o del complotto delle Torri Gemelle? A fronte di tutti gli sforzi profusi per assicurare prezzi e qualità migliori da parte della distribuzione moderna e uscendo dal campo delle interviste strutturate della ricerca di mercato, se il pensiero della clientela si esprime nelle forme menzionate in precedenza, quale strada dobbiamo intraprendere per tentare di gestire razionalmente l’irrazionalità diffusa che osserviamo?