Ridurre le dimensioni dei formati dei beni di largo consumo, lasciando invariati i prezzi può portare a disaffezione nella clientela, se non addirittura reazioni avverse. Molto meglio puntare su promozioni che accrescono il valore percepito del prodotto.
Le notizie sull’aumento dell’inflazione in Italia, ma soprattutto negli Stati Uniti, ormai si sprecano. Le imprese americane sono allarmate per i rincari dell’energia, delle materie prime, dei semilavorati, dei noli e degli altri servizi. I costi impliciti di questa minaccia inflativa si riverseranno, come sempre e come è ovvio, a valle, sui consumatori. Il caso americano diventa allora interessante come banco di prova di alcune tecniche promozionali. Le famiglie di quella nazione, costrette a un risparmio forzato a causa del Covid, si sono trovate con i conti correnti gonfi per il quantitative easing posto in atto dall’amministrazione Trump e proseguito dal presidente Biden. Il tutto è stato accompagnato dalla crescita abnorme dell’offerta di moneta, ragion per cui le famiglie si riversano nei centri commerciali e nei negozi virtuali, irrobustendo la domanda aggregata.
Una possibile soluzione per fronteggiare la minaccia inflativa, citata sempre più spesso, è l’utilizzo da parte delle aziende produttrici della tecnica di marketing denominata “shrinkflation” (un termine inusuale in Italia). L’idea, certamente non nuova, consiste nel ridurre le dimensioni dei formati dei vari beni di largo consumo, lasciando invariati i prezzi. In breve, si tratta di un trucco psicologico, come sostiene Utpal Dholakia, docente di marketing della Rice University di Houston, nell’articolo “How companies raise prices without raising prices” pubblicato sul Wall Street Journal lo scorso 21 novembre. Poco diffusa in assenza d’inflazione, questa tecnica di marketing si vede ora applicata in particolare alle confezioni più grandi, dove la riduzione di peso è meno evidente, anzi in qualche modo camuffata da etichette come “Party Size” o “Jumbo” che fanno presumere ai clienti di acquistare formati più economici rispetto al prezzo degli stessi prodotti per singola unità.
La brand reputation può essere danneggiata da una riduzione di peso mal compresa
Un rischio che le aziende produttrici si prendono, perché la sensibilità alla sgrammatura dipende, ovviamente, dalla fedeltà alla marca del cliente e tanto più alta è la frequenza d’acquisto, tanto più togliere quantità di prodotto potrebbe produrre un effetto negativo. Infatti, pur essendo perfettamente legale, presenta delle insidie per la brand reputation. Alcune aziende che l’hanno adottata si sono trovate ad affrontare il malcontento crescente di milioni di consumatori americani, uniti dai nuovi social media. C’è chi, come per esempio Cadbury, ha cercato di arginare le proteste con una comunicazione mirata volta a giustificare la riduzione delle dimensioni delle confezioni. A nulla è servita, però, l’excusatio non petita del tema della lotta all’obesità. Stessa sorte per Crisbee Puck, un prodotto per la pulizia, ma nel mirino sono finiti anche Frito-Lay, Mondelez International, e molti altri. Insomma, i social media, come Reddit che raccoglie un gruppo di più di 15.000 membri denominato appunto shrinkflation, sono luoghi di scambio di commenti e opinioni sulle confezioni ridimensionate e fanno da cassa di risonanza a delle decisioni delle aziende ritenute ambigue. La brand reputation può essere danneggiata da una shrinkflation mal compresa, che – dicono i commentatori – può suscitare rabbia e indignazioni, come se si trattasse di un imbroglio.
Le quantitative promotion agiscono sulla psicologia dei clienti per andare al di là del valore dell’oggetto scambiato
Emerge contemporaneamente un altro fenomeno. L’economista Tejvan Pettinger, nel 2017 (tempi che ci appaiono remoti) sulla rivista Economics Help ha spiegato “What is the opposite of shrinkflation”, passando in rassegna tantissime tipologie di promozioni che si muovono, invece, in direzione opposta; tutte accomunate dall’aumentare il contenuto delle confezioni senza aumentare il prezzo. Grazie alle on pack promotion, in particolare, si amplificherebbe la capacità di comunicazione promozionale sul package, incidendo positivamente sulla psicologia dell’acquisto.
Dato che i brand si contendono uno spazio predefinito sullo scaffale e i marchi sono migliaia, questo tipo di promocomunicazione (bonus pack, gift on pack, discount ticket, adesivi glow-in-the-dark, on package sample, premium ecc.) che Pettinger definisce “expandingstatic” (nel senso di un incremento delle dimensioni, cioè del valore percepito dei prodotti a prezzi statici) dovrebbe rivelarsi piuttosto efficace nel rivitalizzare una domanda sempre inficiata da effetti di saturazione. Notoriamente, le promozioni twin pack, cioè l’offerta di una confezione doppia di prodotto a un prezzo scontato (ma più alto rispetto al prezzo singolo) è la tecnica più nota e flessibile. In certi casi, la marca può comunicare un grande sconto sul secondo pezzo: 50% (che si traduce in un 25% su entrambi) confidando sulla scarsa prontezza matematica del cliente. In caso di necessità, il push selling mette in campo anche uno sconto secco su entrambe le confezioni, proponendo il drastico, aggressivo, Bogo (buy one get one) oltre al notorio 3 x 2.
Non dimentichiamo che le promozioni, bonus o gift on pack, a loro modo, aumentano anch’esse il valore percepito del tutto. In sostanza, queste quantitative promotion agiscono sulla psicologia dei clienti, sfruttando quello che il sociologo Georg Simmel definiva “principio di reciprocità” basato su tre passaggi fondamentali (dare, ricevere, ricambiare), per andare al di là del valore dell’oggetto scambiato. Secondo Simmel, il valore di un oggetto non ha nulla a che fare con le sue qualità intrinseche e oggettive, ma deriva interamente dalla valutazione soggettiva dell’opportunità e dei costi necessari per ottenerlo. Riadattando ciò che Marcel Mauss scriveva nel suo celeberrimo Saggio sul dono nel 1923, l’aggiunta di un oggetto al prodotto (gadget, character ecc.) crea nella mente del cliente una sorta di obbligo morale, non vincolante e inconscio, che però rafforza la brand loyalty alla marca. Basti pensare alle sorprese dell’ovetto Kinder, il cui valore percepito supera spesso quello del cioccolato e crea indubbiamente una straordinaria fedeltà al brand.
Le pure promozioni di prezzo sono subite e poco apprezzate dai retailer, perché i frequenti tagli prezzi, oltre a ridurre il margine e a ritardare il riacquisto, aumentando lo stock in famiglia, depotenziano eventuali campagne di fidelity. Tuttavia, le promozioni di prezzo di breve durata, le vendite lampo e le offerte giornaliere sono, negli ultimi anni, diventate molto popolari negli Usa e il costo della modifica dei prezzi o “del menu” ha continuato a diminuire. Utpal Dholakia sostiene, a tal proposito, in Psichology Today (19 dicembre 2016) che i prezzi, che cambiano frequentemente, sono opachi.
I consumatori hanno difficoltà a memorizzare un prezzo di riferimento e cambiare i prezzi troppo spesso non è necessariamente vantaggioso per le aziende. In breve, Dholakia ribadisce che i consumatori, in realtà, odiano i frequenti cambi di prezzo. Geoff Colvin rimarca il concetto in un articolo di Fortune, intitolato “Perché tagliare i prezzi di solito è una pessima idea?” (13 luglio 2020). E al proposito citava Warren Buffett, secondo il quale “l’equazione dice al manager che, se i prezzi sono un po’ troppo bassi, non è così grave. Ma se i prezzi sono troppo alti, c’è un rischio per il suo futuro. Tale eccessiva avversione al rischio lascia soldi sul tavolo, quindi spesso occorre tenere su i prezzi”. In conclusione, se alcune aziende possono essere tentate dalla “sgrammatura”, altre possono approfittare di questo momento del ciclo economico per attuare delle promozioni di senso contrario e rafforzare la propria immagine. La situazione è confusa e, come ricorda Dholakia, viviamo in un’epoca nella quale i clienti hanno la vista acuta e utilizzano i social media per lamentarsi di eventuali aumenti di prezzo, non importa quanto siano elevati o quali siano le ragioni sottostanti.
Video: L’inflazione nel 2022, quel che dicono i top manager
Loris Tirelli
Socio della società di ricerca Amagi, ha conseguito una laurea in Scienze Politiche alla Cattolica di Milano e una laurea magistrale in Marketing, Consumi e Distribuzione Commerciale presso lo Iulm di Milano. Fra le esperienze accumulate, ha svolto attività lavorative presso PharmaRad, Market Knowledge, Ciro Fresh Market e presso l’istituto Smart Research.