Nell’ambito dell’omnicanalità le marche e le insegne di prodotti e servizi hanno una visione piuttosto distante dalle reali esigenze del loro pubblico di riferimento e non sempre considerano che ogni cambiamento comporta un investimento di energie psicologiche da ripagare con benefici ben comunicati e provati.
Da sempre, e a maggior ragione nel corso degli ultimi anni, le aziende sono impegnate nella sfida di innovare per quanto riguarda tutti gli aspetti del marketing, vuoi per mantenere il passo con l’evoluzione dei bisogni della clientela, vuoi per conquistare sempre maggiori quote di mercato o anche solo per migliorare la propria profittabilità. Vien da chiedersi se il pubblico della marca o dell’azienda apprezzi le novità o queste non sempre rappresentino ai suoi occhi un vero e proprio miglioramento della famosa esperienza. Dipende.
Le novità non sempre rappresentano agli occhi dei clienti un vero e proprio miglioramento della loro esperienza
A titolo di premessa, Ipsos nella ricerca “Challenging the status quo. What makes a new product succeed” ci ricorda che, anche se un prodotto o servizio nuovo ha una performance superiore a quelli già presenti nel mercato e ha un supporto di marketing adeguato, non è automatico che abbia successo. Vi sono, infatti, numerosi fattori di cui tenere conto quali l’orientamento allo status quo, l’inerzia e la mancanza di stimoli.
Il cambiamento comporta un investimento di energie psicologiche che devono essere ripagate da benefici ben comunicati o provati grazie a un sampling, ma anche creando un momento di rottura nei processi di acquisto o fruizione ripetitivi, fatti in automatico, senza valutare le alternative esistenti. Si tratta poi sempre di vera innovazione? Perché, per quanto riguarda i prodotti e i servizi, l’esperienza di Ipsos ci dice che solo il 5% di quanto presentato sul mercato può definirsi tale. I tassi di mortalità li conosciamo bene.
Lo stesso disallineamento si registra per le leve di marketing, a partire dai canali di comunicazione utilizzati per promuovere la propria offerta. Uno studio recente di Kantar (condotto intervistando 18.000 persone in 29 differenti Paesi e 1.000 manager di aziende investitrici, agenzie e centri media, nonché monitorando il 90% degli investimenti di 400 marche) è giunto alla conclusione che le imprese abbiano una percezione confusa per quanto riguarda quali siano i canali più efficaci. Parlando, per esempio, dei canali digitali, nei quali la gente preferisce trovare i suggerimenti pubblicitari, Amazon stravince davanti a Tiktok, Spotify, Google e Snap. Mentre le aziende puntano soprattutto su Instagram davanti a Google, Youtube, Tiktok e Spotify. L’uso che viene fatto di questi canali di comunicazione, poi, è quello che la gente si aspetta? La risposta, ancora una volta, è negativa.
App sì ma la differenza la fa soprattutto il contenuto, ovvero l’animazione con vantaggi e funzionalità esclusive
Lo studio “State of personalization” di Twilio ha fotografato bene la situazione: la gente chiede di avere rapporti personalizzati con le marche. Così il 49% degli intervistati dichiara di diventare un cliente fedele quando gli viene offerta un’esperienza personalizzata. Il 62% non solo la vuole, ma se l’aspetta proprio e se non la ottiene non si rivolgerà più a quell’azienda. Questa percentuale era al 45% lo scorso anno. D’altra parte, anche l’80% delle aziende ammette che i clienti spendono il 34% in più a fronte di esperienze d’acquisto “su misura”. Eppure, solo il 35% di quelle intervistate ha realizzato una personalizzazione omnicanale nei confronti dei clienti e solo il 47% offre esperienze differenziate sulla base delle informazioni che li riguardano. Una ricerca condotta da Harris Interactive negli Stati Uniti lo conferma.
Oltre il 40% degli americani utilizza i social per interagire con le marche durante il processo d’acquisto, con il 68% che vorrebbe fare domande di approfondimento prima di comprare. Il 64% usa o vorrebbe usare i social media per acquistare e il 59% li vorrebbe utilizzare nella fase dell’assistenza post-vendita. D’altronde, il 62% ritiene di non aver goduto di un’eccellente esperienza durante un acquisto, percentuale che di alza al 70% per la generazione Z. Anche perché il 52% si attende una risposta entro un’ora e il 32% la vorrebbe in mezz’ora. Mentre, nella realtà, il 39% ha dovuto aspettare almeno 2 ore e il 20% anche 24. Un’altra analisi condotta da Idc rileva che l’89% degli intervistati ritiene di aver diritto di replica e dialogo attraverso i diversi touchpoint a disposizione. E che il 53% prova un senso di frustrazione in caso contrario.
Il 95% di chi ha a che fare con un chatbot cerca di passare prima possibile alle cure di un essere umano
Per non parlare poi di quando si finisce in balia dei chatbot: si tratta di un’esperienza fatta dal 70% degli intervistati, il 95% dei quali cerca di passare prima possibile alle cure di un essere umano. Insomma, pare che le marche di prodotti e servizi chiedano informazioni personali per interagire con la propria clientela, ma abbiano in mente spesso una comunicazione a una via, che non è quella che la gente si aspetta. Un canale di vendita relativamente recente è quello dello streaming dal vivo. Secondo Coresight Research le vendite hanno raggiunto 11 miliardi di dollari di fatturato solo negli Stati Uniti nel 2021 con una previsione di 35 entro il 2024 e un forte potenziale di crescita per gli anni a seguire. Fenomeno nato in Cina, è già stato testato da Macy’s, Walmart e Sephora in collaborazione con Facebook, la stessa Tiktok e Youtube. Mentre Pinterest Tv ha visto il battesimo a ottobre dello scorso anno e a luglio Shopify ha introdotto Youtube Shopping al servizio dei suoi merchant.
C’è confusione su quali siano leve di marketing più efficaci, a partire dai canali di comunicazione utilizzati per promuovere le offerte
Eppure, gli ultimi segnali sembrano indicare che il live shopping non rappresenti davvero un canale d’acquisto interessante per il grande pubblico – più sensibile ai video brevi – né che sia efficiente per le aziende. La massa critica necessaria di spettatori, insieme ai costi di produzione e alla scarsa abitudine al canale, stanno impedendo che decolli. Tant’è che Meta ha appena deciso di abbandonare questo format di comunicazione e Tiktok ha interrotto la sua commercializzazione in Gran Bretagna.
Venendo alle app, uno studio condotto negli Stati Uniti rileva che, se è vero che l’88% degli intervistati ne ha scaricato almeno una per fare acquisti sul proprio smartphone, il 50% ne ha più di 4 e per il 40% offrono funzionalità superiori, in realtà solo il 31% dei clienti le preferisce rispetto ai siti aziendali. Invece, il 45% ha ancora dei timori nello scaricarle per via della privacy, dello spazio occupato sullo smartphone, dei tempi lunghi richiesti. Tra chi le apprezza, il 60% predilige la miglior esperienza, il 51% le promozioni più interessanti, il 30% l’accesso a prodotti esclusivi e migliori programmi fedeltà, il 23% il migliore servizio clienti. Insomma, app sì ma la differenza la fa soprattutto il contenuto, ovvero l’animazione con vantaggi e funzionalità esclusive.
Per quanto riguarda i pagamenti contactless, ci sono pochi dubbi. Anche grazie alla pandemia hanno raggiunto un elevato livello di adozione, con il 67% delle imprese distributive che ne era dotato nel 2020 e il 71% dei clienti che li utilizzava (fonte Radyant). La stima è che quest’anno verranno transati in questa modalità 4,6 trilioni di dollari, con una proiezione a oltre 10 trilioni entro il 2027 (fonte Juniper Research), trascinata da mobile e wearable. Non altrettanto unanime, invece, è il giudizio sui dark store, che hanno contribuito in misura sostanziale al successo del quick-commerce nel corso della pandemia. Una soluzione logistica innovativa che avvicina i prodotti di largo consumo ai clienti, per garantire la consegna in una manciata di minuti.
Purtroppo, terminata l’emergenza ed entrati nel tunnel dell’inflazione, tanta fretta rappresenta un lusso che possono permettersi in pochi. In più, c’è da dire che sempre più spesso la gente manifesta chiari sintomi di insofferenza nei confronti di questi hub che, seppur piccoli, portano nei quartieri residenziali dei centri cittadini tutto il traffico tipico dei depositi periferici. Con la conseguente messa al bando da parte delle amministrazioni locali. Vedasi, per esempio, la situazione a Parigi. Sul fronte dei punti interrogativi ancora da sciogliere, osserviamo che dopo almeno cinque anni di sperimentazione e tanto parlarne, non pare siano destinati a sfondare i camerini virtuali proposti nei department store e nei big box americani.
Allo stesso modo non sembrano ancora maturi i tempi per i robot all’interno dei punti di vendita. I pochi esperimenti in corso nella ristorazione non consentono di trarre delle conclusioni sul livello di gradimento da parte del pubblico. E per quanto riguarda le implicazioni sui programmi fedeltà? In merito al mercato italiano si può fare riferimento ai dati raccolti dall’Osservatorio Fedeltà dell’Università di Parma presentati a metà ottobre (osservatoriofedelta.it) e che faranno parte di un whitepaper pubblicato entro fine anno. Negli Stati Uniti, intanto, lo studio Premium Loyalty Data Study, che attinge a una ricerca basata su un campione di 2.500 persone commissionata da Clarus Commerce, ha confermato alcuni dei trend più attuali. Il 77% degli intervistati ha dichiarato di voler aderire a un programma fedeltà premium, che comporti il pagamento di un fee.
Ovviamente, i vantaggi esclusivi dovrebbero essere tangibili, commisurati all’investimento fatto e traducibili in forme di cashback (78% del campione). Una buona notizia per le aziende, che possono semplificare i propri programmi, lavorando su forme differenti di coinvolgimento e comunque, in tal modo, fanno tornare i clienti a spendere il “gruzzolo” accumulato presso di loro, creando così nuove occasioni d’acquisto. Infine, tornado alla ricerca di Clarus Commerce, il 65% degli interpellati sarebbe interessato a relazionarsi con una marca nel metaverso, se ciò comportasse un vantaggio esclusivo. Mentre il 27% sarebbe addirittura molto interessato. Percentuali altissime tutte da verificare, se è vero che uno studio condotto dall’agenzia di creator marketing Billion Dollar Boy in Gran Bretagna e Stati Uniti su 4.500 persone tra utenti, creatori di contenuti nel metaverso e aziende investitrici, ha scoperto che solo il 28% degli intervistati saprebbe spiegare di cosa si tratta, a fronte del 21% di incerti e una percentuale identica di confusi.
Allo stesso tempo, è vero che il 46% vorrebbe saperne di più. Pure in questo caso è rilevante il gap con le aziende, il 60% delle quali ha già un budget per lavorarci, mentre il 57% sta implementando una strategia per introdursi in questo nuovo ambiente digitale di incontro con la clientela. Insomma, in conclusione, le marche e le insegne di prodotti e servizi hanno una visione di quanto serve per ottimizzare la relazione con i clienti nell’ambito dell’omnicanalità piuttosto distante dalle reali esigenze del loro pubblico di riferimento. In alcuni casi possiamo interpretare il fenomeno considerandolo come una conseguenza del desiderio da parte delle aziende di anticipare i bisogni del mercato, con il rischio latente di tradurli talvolta in modo difficile da capire per il grande pubblico. E qui il time to market è fondamentale. In altre situazioni appare invece chiaro che manca la cultura dell’ascolto e dell’approccio customer-centric, subordinati ancora una volta al tradizionale orientamento al proprio prodotto o servizio, come ai tempi del modello T della Ford, disponibile in qualsiasi colore purché rigorosamente nero.
Filippo Genzini
Ho sempre lavorato nel settore dei servizi innovativi di marketing per le aziende del largo consumo e - in particolare - del retail, sia sul fronte della marketing intelligence sia su quello della comunicazione, con una focalizzazione sull’approccio customer centric. Hobby prediletti: la scrittura e la musica. genzini@admirabilia.it www.ilcommissariozarotti.com