Due mondi solo apparentemente agli antipodi si ritrovano a condividere le strategie di engagement e fidelizzazione dei rispettivi target. Molteplici sono gli aspetti comuni secondo il professor Valerio Melandri, esperto di fundraising e ideatore dell’omonimo festival in cui da anni si divulgano le tecniche utili per incrementare le donazioni a favore di iniziative non profit.
Marketing e fundraising non profit parlano la stessa lingua. Basti pensare che il settore della raccolta fondi per finalità senza scopo di lucro si muove lungo tre assi principali che corrispondono a quanto messo in atto nelle strategie di marketing: acquisizione di nuovo donatori (lead generation), aumento delle transazioni (scontrini più alti), aumento della frequenza delle donazioni (maggiori acquisti).
Termini come content marketing, branding, targeting, engagement, loyalty e innumerevoli altri sono utilizzati indistintamente dai professionisti che si occupano di proporre un prodotto o un servizio sul mercato e dai fundraiser che lavorano ogni giorno per raccogliere donazioni allo scopo di sostenere iniziative di carattere sociale. Obiettivi molto diversi certo, ma strumenti praticamente identici, che consentono di individuare un linguaggio comune attraverso cui instaurare un dialogo potenzialmente fruttuoso, tra due mondi non così lontani come si potrebbe immaginare. Ne abbiamo parlato con Valerio Melandri, direttore del master in fundraising dell’Università di Bologna – Campus di Forlì e fondatore del Festival del Fundraising.
Che relazione esiste tra il mondo del profit e del non profit?
Il mondo profit ormai non può più produrre un bene senza farlo bene. Necessita anche di comunicare all’esterno una propria cultura aziendale e per farlo spesso si avvale dell’esperienza di chi opera nel cosiddetto “terzo settore”. Si tratta di collaborazioni che sempre più prendono piede, anche se la relazione aziende e non profit resta minoritaria rispetto al coinvolgimento dei singoli cittadini nel contribuire a iniziative di carattere sociale: guardando ai numeri, se i privati donano in media all’anno qualcosa come 5,5 miliardi di euro, il mondo corporate contribuisce con 200/300 milioni all’anno. Alcune aziende stanno implementando autonomamente attività in campo tipicamente non profit, un fenomeno di disintermediazione che considero pericoloso, perché facendo da soli si rischia di sbagliare, soprattutto quando si tratta di scegliere in quali attività investire i fondi raccolti, una competenza che il non profit ha maturato nel tempo.
Stiamo parlando comunque di cifre importanti. Tutto frutto di un lavoro di fundraising?
Il fundraising raccoglie qualcosa come 6 miliardi di donazioni complessive all’anno da destinare a iniziative non profit, un settore orientato ad attività senza scopo di lucro a carattere benefico, ma che di fatto vende un prodotto. Un mondo che è notevolmente cambiato negli ultimi 15 anni, allineandosi al trend di cui gli statunitensi sono – come spesso capita – apripista, e che ha visto cambiare anche a livello terminologico l’approccio alle donazioni: sostituendosi a termini come beneficienza, la parola fundraising è entrata nel vocabolario e nei media. E in Italia siamo cresciuti parecchio; stiamo parlando di un mercato che genera un valore compreso tra il 3,5% e il 4% del pil nazionale, pari a quello del settore bancario e assicurativo a livello di personale impiegato (circa 2,7/3 milioni di lavoratori e oltre 10 milioni di volontari).
Quali sono le principali tecniche adottate nella raccolta fondi?
Trovare un nuovo donatore costa moltissimo. Per ogni euro ottenuto si stima che ne vengano spesi dai 3 ai 4: pertanto è antieconomico. Quello che più importa è allora costruire una relazione duratura con il “cliente” già coinvolto in una donazione e qui abbiamo risultati più incoraggianti perché, per fare un esempio, su 100 lettere cartacee inviate circa 3 producono un risultato. Risulta pertanto essenziale coccolare il donatore già esistente, cercando di coinvolgerlo in tutti i modi, facendolo sentire seguito e informato sul progetto che sostiene attraverso i classici mezzi di contatto (telefono, lettere, mailing, porta a porta ecc.)
Ci sono particolari soluzioni per aumentare l’engagement?
Da 10 anni a questa parte poco o nulla è cambiato come sistema di contatto, a esclusione dei banchetti per strada presidiati dai fundraiser e fuori dai punti di vendita. Consideri che ogni giorno in Italia ci saranno almeno 20.000 persone per strada a chiedere fondi in modo diretto. L’impegno è elevato anche nel caso di altri meccanismi di engagement: all’anno vengono spedite tra 180 e 200 milioni di lettere cartacee, effettuate milioni di telefonate, inviate un’infinità di mail, per un totale di qualcosa come 12 miliardi di call to action, considerando tutti i media coinvolti (inclusa tv, radio, manifesti, adv con rispettive capacità stimate di penetrazione). Un esempio concreto è l’organizzazione del nostro Festival del Fundraising: inviamo qualcosa come 10/15 milioni di mail all’anno, avvalendoci di 6 collaboratori a tempo pieno, per raggiungere l’obiettivo di vendita di 1.200 biglietti.
Un’enorme mole di lavoro a fronte di quali risultati?
Come dicevo il tasso di riconferma di un donatore già acquisito si colloca intorno al 3%, un dato molto alto se si considera che per esempio negli Stati Uniti sono fermi allo 0,3-0,5%. Ciò è dovuto alla capacità di effettuare segmentazioni dei database molto raffinate e di individuare personas con un’efficacia molto superiore a quanto avviene in campo profit. Il nostro settore, avendo margini estremamente limitati di spesa, non si può permettere sprechi di alcun tipo. Oltre a un’analisi accuratissima del database sia a livello anagrafico sia psicografico, il vero punto di forza risiede nell’accurata attività di raccolta informazioni attraverso un telemarketing svolto da operatori molto coinvolti nella causa e anche molto professionalizzati e formati nel tempo. Utilizziamo programmi gestionali specifici, come Mydonor, Give, Asset, e altri impiegati normalmente in ambito profit, come Salesforce o Sap (lo fa per esempio Airc, la più grande non profit italiana) riadattati in funzione raccolta fondi.
Di quali altre leve vi avvalete per acquisire donatori e conservarli nel tempo?
Del più vario tipo, dalle manifestazioni di sorte locali come le lotterie, alle sottoscrizioni a premi, ma fondamentale è il gadget. Ne utilizziamo tantissimi, dalle cartoline di Natale con la busta per gli auguri ai portachiavi, alle penne, ai blocchetti, per arrivare a quelli più specifici, magari studiati appositamente in funzione della causa sostenuta o del target di donatori: mi vengono in mente i portapillole per anziani o i portaocchiali, oggetti capaci di suscitare attenzione e creare un senso di restituzione. Fondamentale poi è il lavoro delle agenzie di comunicazione, come pure le figure professionali coinvolte nel settore non profit: grafici, copywriter, creativi e quanti tipicamente lavorano per campagne di comunicazione.
Il fundraising ha preso dal marketing le tecniche, ma può insegnare anche qualcosa?
Oltre alla proattività che contraddistingue il nostro settore, all’abilità di inquadrare il cliente/donatore e a stargli vicino costantemente nella costruzione di un rapporto di fidelizzazione, c’è un aspetto di più ampio respiro che mi sento di segnalare: tra chi si occupa di non profit esiste una forte collaborazione, condivisione di informazioni ed esperienze. Sul mercato se un concorrente sbaglia, gli altri possono trarne vantaggio perché il discredito di uno sposta le preferenze verso l’altro; nel non profit, l’errore di uno lo pagano tutti e ciò determina una sorta di condivisione degli intenti che rafforza le collaborazioni a vantaggio di tutti. Forse anche il mondo del profit potrebbe trarre spunti da questa costatazione al fine di operare in sinergia per il bene comune.