La decadenza suggerisce di abbandonare la visione neocapitalista

Tendenzialmente, gli individui dell’Occidente contemporaneo ritengono di essere unici e originali. Eppure, mai come in questa fase di decadenza, sono esposti a un conformismo che li porta ad adottare comportamenti e atteggiamenti omologanti, pur se tentano (disperatamente) di mantenere un proprio senso di individualità e unicità. Questa pretesa di originalità – loro malgrado – è un’illusione. È una maschera narcisistica che copre l’ambiguità tra autenticità e imitazione. Nella nuova società, dominata oggi dai media e dalla digitalizzazione di immagini e contenuti e, domani, dall’intelligenza artificiale, gli individui sono ampiamente manipolati da pseudo norme sociali, culturali ed estetiche che li conducono verso standard stereotipati di postura, linguaggio e bellezza, in perenne stravolgimento. Una società decadente propende a estetizzare la propria vita con autonarrazioni, che visivamente si pretende siano attrattive e distintive, mentre il desiderio di crescita interiore e materiale, personale e collettivo si assopisce. Lasciarsi andare e deresponsabilizzarsi è possibile. Certo, pur se il filosofo Tariq Ramadan scrisse a proposito della decadenza che “un’alba segue sempre al tramonto”, resta il problema di capire cosa accade nella notte.

In breve, questo è un modo di vivere la “decadenza”, che da sempre è il risultato di una persistente, progressiva mancanza di visione e di ambizione, di motivazione e di azione. È uno svilupparsi di comportamenti dipendenti e passivi, di un’autoderesponsabilizzazione, di cui la politica è un evidente epifenomeno. Un recente fondo di Newsweek titolava “Economy has taken a devastating toll” e spiegava che l’insicurezza finanziaria è causa di danni alla salute mentale degli americani. Per due terzi di essi, le questioni finanziarie sono divenute il fattore principale di stress più o meno gravi. Non riescono a far regredire i dispendiosi consumi di servizi a cui sono assuefatti: sono disabituati a tenere un budget finanziario dettagliato e a controllare il debito cumulato nelle loro credit card. Dopo anni di moneta facile, oggi evaporata dai conti correnti, scoprono l’onere dei mutui per abitazioni non più ispirate a quelle dei celebri “Joneses”, loro vicini, ma a quelle degli influencer mediatici. Nel bene e nel male, noi sappiamo che l’oggi al di là dall’Oceano è il domani qui da noi.

Prendiamo quindi le parabole esistenziali dei consumatori italiani di diversa età. Constatiamo, allora, come esse sottintendano differenti psicologie e filosofie di vita. Il grafico a corredo lo spiega semplicemente e inequivocabilmente. I baby boomer che iniziarono a lavorare nel 1970 non patirono i sacrifici dei “ricostruttori” loro padri, reduci da campi di prigionia, sradicati dai luoghi d’origine, inchiodati alle catene di montaggio. Quei baby boomer ebbero scooter, poi utilitarie, poi berline, tv in bianco e nero, poi tv color, poi hi-fi; si affollarono sulle spiagge adriatiche, poi scoprirono l’estero e ora si godono la crociera; ebbero case calde e un po’ più spaziose, poi villette divenute oggi “nidi semivuoti”, dopo la partenza dei figli. Nell’insieme i loro consumi, dall’entrata nel mondo del lavoro sino al momento del ritiro, più che raddoppiarono. E ricordando la loro giovinezza, questa parabola ascendente li porta a dire: “Beh, in fondo in fondo, non è andata così male”. Chi iniziò il lavoro nel 2000, oggi vede, al contrario, il consumo pro capite diminuito del 4% e il debito pubblico (che prima o poi dovrà pagare) cresciuto del 30%. Un giovane capofamiglia, pur in vena di ottimismo, potrebbe sperare in una crescita futura, sino al suo ritiro nel 2040, diciamo dell’1% annuo? Se così andasse, pur non essendone convinto, egli vedrebbe il suo standard di consumo aumentato del 14-15%.

E pertanto, che aspirazioni può alimentare una simile proiezione? Il nostro italiano “rappresentativo” lotta per non essere sopraffatto dalle pressioni di una vita sempre più complicata e insicura. Per esempio, avendo dei figli, coglie il rischio di povertà qualora dovesse divorziare. Pertanto, non vuole averne o averne altri. Non ha fiducia nell’azienda in cui lavora. Men che meno dei servizi pubblici e ancor meno nella rappresentanza politica. Non coltiva l’italian dream dei nonni e dei padri e si sente sopraffare dalla paura del cambiamento che il mondo globale sta imponendo. I guadagni facili che osserva, pur nella stagnazione, e il nepotismo che governa le carriere si sommano alla confusione dei valori tradizionali, già avviata dai boomer, a contorno di uno spazio vuoto che si fatica a riempire. Come ebbe a dire John Stuart Mill “la decadenza di una società inizia quando il desiderio di un uomo di essere onorato senza lavorare si combina con il desiderio di un altro di essere compensato, per lavorare senza essere onorato”.

Attorno al 2000 si pensava che lo stop alla crescita dei consumi, crudelmente certificato da Istat, fosse il ventre di un ciclo; ma il ciclo è sparito. Oggi, il nucleo portante della nostra società sembra rassegnato a vivere in una stagnazione apparentemente senza fine, con l’eccezione dell’estemporanea, etilica euforia della recente pioggia di danaro a debito, finita troppo presto. Ma, a questo punto, non chiedete a me se e come tutto questo finirà. Da boomer vi dico semplicemente “The answer, my friends, is blowing in the wind”.

Daniele Tirelli