Agli inizi della mia carriera di pubblicitario ho avuto la grandissima fortuna di lavorare su alcuni brand di Procter&Gamble. Erano gli anni ’90 e potersi fare le ossa con un tale cliente ha rappresentato un arricchimento di competenze inestimabile, sotto molteplici aspetti: dal marketing (le agenzie venivano coinvolte in ogni fase del processo, fin dallo sviluppo del prodotto) alla profondità di analisi sul consumatore (la centralità dell’insight), dal metodo di lavoro alla strategia di brand.
Tuttavia, se c’era una cosa su cui P&G non era certo ritenuta all’avanguardia era la creatività. Le campagne erano costruite su dettami molto razionali, fondamentalmente definiti negli anni ’50 a partire dal concetto di unique selling proposition, e seguivano regole ferree nella concezione e nello sviluppo degli storyboard (perché quasi sempre si parlava di spot tv). Regole scolpite negli anni e magari aggiornate via via, ma comunque regole, che formavano una sorta di manuale della creatività P&G che, una volta appreso, dava l’impressione di poter essere applicato in maniera quasi automatica (fu proprio questa impressione che, dopo 5 anni, mi spinse a cercare nuovi stimoli portandomi a lavorare con aziende meno strutturate ma di conseguenza un po’ più libere nello sviluppo della comunicazione, ma questa è un’altra storia). Ogni tentativo d’inserire elementi emozionali o di storia non direttamente mirata al prodotto e alla sua proposition venivano prima guardati con sospetto e poi, 9 volte su 10, banditi.
Però, quasi sempre, le campagne, seppure noiosette, raggiungevano gli indicatori di business e di brand prefissati (e se non lo facevano, dato il costante processo di testing, venivano uccise nella culla). Quindi, perché preoccuparsi della creatività?
Fast forward al 2018, Costa Azzurra: all’ultimo Festival della Creatività di Cannes P&G vince ben due Leoni d’oro, uno per lo spot del Superbowl di Tide (il nostro Dash, in pratica), che è una deliziosa metapubblicità su quanto sia improbabile uno spot di Tide al Superbowl, terreno elettivo per birre e automobili, e l’altro per una campagna corporate firmata direttamente con il nome dell’azienda, intitolata “The Talk”, sulla necessità per le madri di colore negli Usa di fare un “discorso” ai propri figli per prepararli alle difficoltà razziali che troveranno nella società americana.
Cosa è successo in questi 20 anni, quindi? Ovvio, è cambiato il modo di comunicare nel nuovo ambiente mediatico: uno spot tv di 30” che mostra le meraviglie di un detersivo nel togliere le macchie non ha più senso né efficacia. Sono cambiati i consumatori e la loro relazione con i brand, certamente.
Però, innanzitutto, la lezione che P&G – sempre attentissima all’efficacia della propria comunicazione – c’impartisce è che oggi più che mai la creatività fa la differenza. Storytelling? Sì, ma le storie bisogna trovarle e saperle raccontare. Le regole scientifiche non bastano più; ricordiamocelo quando si riduce il marketing all’analisi di una massa enorme di dati.