Nel numero scorso abbiamo preso in esame il fenomeno degli influencer nell’evoluzione del modo di fare marketing, ma la domanda che ci poniamo oggi è: le normative riescono a tenere il passo?
Sono moltissimi i marchi che hanno avuto un’insperata rinascita grazie all’influencer marketing e indubbiamente si tratta di un fenomeno destinato a crescere, ma non ci sono ancora norme specifiche a regolamentarlo, vuoto legislativo particolarmente preoccupante con riferimento ai baby influencer. Al momento, dal punto di vista legale, la gestione dell’utilizzo dell’immagine dei bambini riguarda solo i genitori.
Nell’industria dell’intrattenimento degli Stati Uniti, già alla fine degli anni ‘30, furono introdotte diverse leggi per regolare il lavoro minorile, limitando il numero di ore lavorative e proteggendo i guadagni dei minori con l’obbligo di vincolarne una percentuale in un fondo fiduciario fino al compimento dei 18 anni.
Nel tempo le leggi non si sono adeguate e i genitori dei bambini influencer ostacolano questo processo, sostenendo che i loro figli si divertono e pertanto non si configura l’ipotesi di “vero lavoro” poiché sono loro, i tutori, a sostenere i veri sforzi, occupandosi di negoziare con i marchi, di organizzare i servizi fotografici e le riprese video. Il punto è che il potenziale sfruttamento del lavoro minorile non riguarda solo le famiglie, ma soprattutto i canali digitali che da questi bambini traggono enormi profitti. Se da un lato Instagram non offre opzioni per monetizzare i post attraverso la piattaforma (e in questi casi i profitti delle famiglie derivano esclusivamente dagli accordi con i marchi), su YouTube per gli influencer è possibile monetizzare i propri contenuti, vendendo annunci pubblicitari le cui entrate vengono suddivise circa a metà fra il portale e l’influencer. Questo si traduce, per il canale, in decine di milioni di dollari di profitti realizzati su contenuti postati da minori che, paradossalmente, non potrebbero neanche essere utilizzatori del social le cui policy vietano ai minori di 13 anni di creare un profilo. Tutto questo senza considerare il loro diritto alla privacy. E non è solo dei baby protagonisti che dobbiamo preoccuparci, ma anche e soprattutto dei loro piccoli fan, ovvero della tutela dovuta ai minori che fruiscono dei contenuti.
A livello internazionale, sia l’Onu (con la Convenzione sui diritti dell’infanzia) sia la Comunità Europea (con la direttiva Sma) sanciscono i principi entro i quali deve muoversi la pubblicità indirizzata ai bambini, che devono essere protetti da comunicazioni fuorvianti e inappropriate e non devono essere esposti a contenuti che possano nuocere al loro sviluppo fisico, mentale e morale. E se da un lato non appare possibile poter considerare dannoso il video di un bimbo che apre con entusiasmo un nuovo giocattolo, occorre chiedersi se una sollecitazione così continua e indiscriminata non possa essere foriera di insoddisfazioni e frustrazioni con conseguenti danni psicologici per i piccoli follower; e ancora, se il rapporto illusoriamente amicale che instaurano con l’influencer non possa esporre i bambini a una visione alterata della realtà.
A queste considerazioni occorre aggiungere che, contrariamente a quanto accade in tv, su YouTube non è sempre chiaro quale sia l’annuncio e i bambini risultano particolarmente vulnerabili all’essere manipolati da contenuti a pagamento mascherati come legittimi.