Gestire in autonomia i dati sulla clientela la nuova sfida per i retailer più evoluti

Grazie all’avvento di società specializzate nella gestione omnicanale dei dati, alcuni distributori hanno iniziato a condividere con i loro fornitori le informazioni sulle transazioni dei singoli clienti. Ma i retailer possono anche creare al proprio interno le infrastrutture tecnologiche e le competenze per gestire l’intero processo in modo autonomo. Negli Usa hanno già cominciato

Come ben sappiamo, le marche possono veicolare i propri prodotti al pubblico direttamente, attraverso dei partner distributivi o utilizzando in modo complementare le due modalità. Semplificando, in passato le variabili più rilevanti in grado di far optare per una delle alternative disponibili erano da una parte la potenzialità di ciascun canale e dall’altra la possibilità di mantenere il controllo su tutte le leve del marketing mix. Opzioni influenzate poi dalle valutazioni relative alla velocità d’accesso al mercato e agli investimenti necessari per conseguire il risultato.

Questo una volta, appunto, quando ancora non si parlava di approccio customer centric e di lifetime value. Due concetti figli, da una parte, del passaggio dall’orientamento al mercato a quello al singolo cliente/ utente e, dall’altra, dell’evoluzione della tecnologia sul fronte della marketing intelligence e dei media digitali. Perché ai tempi non sarebbe stato possibile raccogliere e gestire informazioni su milioni o decine di milioni di clienti, ma se anche ci si fosse riusciti non se ne sarebbe utilizzata che una minima parte, non esistendo mezzi di comunicazione individuali e interattivi in grado di personalizzare le interazioni con loro.

Oggi, però, tutto ciò è disponibile e le aziende eccellenti se ne servono per ottenere un ulteriore vantaggio competitivo. Motivo per cui anche l’accesso alle informazioni relative all’identità e ai comportamenti dei propri clienti e la possibilità di comunicare con loro in modo mirato rappresentano fattori che condizionano la scelta dei canali distributivi per la veicolazione dei propri prodotti e servizi. A maggior ragione là dove si opera in mercati caratterizzati da un’elevata frequenza d’acquisto, con carrelli della spesa variegati come, per esempio, nel largo consumo. Perché le analisi della reiterazione dei comportamenti e della composizione dello scontrino rappresentano alcuni dei parametri secondo i quali è possibile segmentare la clientela in funzione dei suoi bisogni, delle preferenze e delle attitudini.

Molto diverso il discorso, ovviamente, se si desidera interagire con chi ha intenzione di cambiare l’auto, il televisore o la lavatrice, ovvero tutti i prodotti e servizi a bassa frequenza d’acquisto. Infatti, qui per influenzare il cliente è fondamentale intercettarlo lungo i diversi passaggi del processo decisionale. Ma di questo parleremo magari più diffusamente in un prossimo articolo.

Tornando al largo consumo, abbiamo registrato a lungo una certa ritrosia da parte delle imprese distributive a condividere con i fornitori dell’industria le informazioni relative alla propria clientela. Forse perché considerate strategiche o, più probabilmente, perché nemmeno al loro interno erano in grado di leggerle per sfruttarle al meglio in chiave commerciale. Società come Iri e Nielsen e istituzioni come Gs1 hanno aperto una prima breccia, dimostrando l’utilità di condividere i dati di venduto a livello d’insegna per consentire alle catene distributive e alle aziende produttrici di collaborare su numerosi fronti, a partire dal trade marketing, dagli acquisti e dalla logistica.

Ma è solo con l’avvento delle grandi società specializzate nella gestione omnicanale dei dati, come Dunnhumby, Eyc, 5One e Civalue, che alcuni distributori, più illuminati di altri, hanno iniziato a mettere a disposizione dei loro fornitori anche le informazioni relative alle transazioni dei singoli clienti – seppure in modo anonimo – per lavorare sulla loro segmentazione e sulla definizione delle variabili del retail mix, partendo da un approccio customer centric. In questo modo hanno potuto applicare un metodo “scientifico” alla presa delle decisioni in aree quali lo store e il category management, i prezzi e le promozioni. E siccome gli strumenti e la consulenza messi a disposizione da quelle società sono piuttosto onerosi, coinvolgere i fornitori, offrendo loro set informativi e pacchetti di attività di comunicazione e promozionali, ha rappresentato per il marketing anche una forma di autofinanziamento se non addirittura il modo per contribuire positivamente al conto economico aziendale. Quale il passo successivo per i retailer? Diventare indipendenti dalle terze parti specializzate in questo ambito, creando al proprio interno le infrastrutture tecnologiche e le competenze per gestire l’intero processo in modo autonomo.

Oggi è possibile raccogliere e gestire informazioni su milioni o decine di milioni di clienti e personalizzare le interazioni con loro.

Non a caso, lo spunto per questo articolo mi è stato offerto dalla notizia relativa al fatto che Walmart, nell’ambito del suo Media Group, ha lanciato Performance DashBoard, una piattaforma che consente alle marche inserzioniste di disporre in tempo reale dei dati relativi alle transazioni on e offline per misurare l’efficacia delle campagne realizzate con Walmart Display e Sponsored Products attraverso lo strumento self-service Walmart Ad Center. Benché questo approccio di Walmart possa apparire rivoluzionario, in realtà si tratta di una risposta a distanza addirittura di un paio d’anni a quanto già realizzato sempre negli Stati Uniti da Albertsons e, ancor prima e ancor meglio, da Kroger. A titolo di premessa occorre dire che quest’ultimo, gestendo una serie di insegne presenti nei diversi stati americani, ha un po’ la fisionomia dei gruppi della distribuzione organizzata di casa nostra, e presenta il vantaggio di offrire ai partner dell’industria una copertura ampia del territorio e una massa critica significativa, insieme a condizioni d’acquisto centralizzate. Ecco allora che le aziende di produzione di prodotti di largo consumo americane possono contattare con campagne di comunicazione co-branded i loro clienti profilati attraverso pagine dedicate, pubblicità mirate e dinamiche su Kroger.com, sull’app per compilare la lista della spesa, via email (con soggetto singolo o multiplo), lavorando con gli influencer su blog specializzati, utilizzando coupon personalizzati, video, eventi su Twitter, le pagine di Facebook, Pinterest, Pandora, e, infine, approcciando i clienti migliori attraverso i media dedicati alla customer retention come il Loyal Customer Mailer, My Magazine, eventi a tema, e le comunicazioni relative a “Le novità di Kroger”.

Un’offerta di mezzi ricca, per una pianificazione alimentata dalla profilazione dei clienti, che si basa su numeri di tutto riguardo per l’industria di marca: 2.800 negozi in 35 stati, 9 milioni di transazioni al giorno coperte al 97% da carta, 2,8 miliardi all’anno di scontrini e 60 milioni di famiglie (poco meno della metà del totale di quelle presenti negli Stati Uniti). Per approfondire il tema vi invito a visitare il sito www.8451.com.

Dinanzi a questo fenomeno viene spontaneo fare alcune osservazioni a margine. Innanzitutto, i distributori che intraprendono questo cammino possono farlo perché hanno un marketing evoluto che analizza e comprende la propria clientela e comunica con essa in modo mirato, attraverso tutti i touchpoint disponibili. Infatti, senza la sicurezza derivante da questa capacità di presidiare la marketing intelligence e i media digitali, in pochi si azzarderebbero a condividere un tale patrimonio con i fornitori, con il rischio che siano proprio loro a farne un uso più sofisticato.

Se i retailer gestiscono il progetto in totale autonomia, poi, devono compiere una scelta di fondo: sfruttare al massimo gli strumenti di marketing automation per rendere i partner industriali indipendenti nel pianificare e implementare le loro campagne di comunicazione oppure offrire un servizio di gestione delle stesse. Una modalità quest’ultima che presenta peraltro il vantaggio di consentire di verificare la coerenza tra quanto la marca desidera comunicare e gli obiettivi commerciali e di marketing del retailer. Opzione che comporta la necessità d’istituire delle figure d’interfaccia al servizio dei fornitori dell’industria con capacità di vendita, di coordinamento interno e, soprattutto, di servicing. Il che implica evidentemente un’inversione di ruoli tra chi acquista e chi deve fornire il servizio rispetto agli abituali rapporti industria/ distribuzione. Perché se il “cliente marca” non è soddisfatto, non investirà più sullo strumento, minandone le potenzialità di fatturato.
Come accennato, l’interesse dell’industria è proporzionale alla massa critica di clienti potenziali o effettivi per i suoi prodotti. Motivo per cui in Italia sono poche le catene o i gruppi distributivi che possono offrire con successo questo genere di collaborazione a tutto tondo. Proprio per ciò le centrali della distribuzione organizzata o cooperativa hanno la grande responsabilità di dover creare le condizioni per mettere a disposizione dei propri associati le competenze necessarie per affrontare l’innovazione in questo ambito.
Infine, occorre dire che l’utilizzo di insight e di strumenti di comunicazione più potenti comporta per il distributore anche un diverso modo di lavorare, utilizzando kpi differenti per alimentare i processi decisionali che coinvolgono oltre al marketing anche le vendite, gli acquisti e i category manager, quando presenti.
È quasi inutile sottolineare che offrire un servizio così potente e sofisticato ai propri fornitori può in realtà essere considerato dal retailer il mezzo per accelerare un processo di crescita professionale che porti tutti a operare in modo differente. Perché, proprio come suggerisce Alessandro Baricco in “The Game”, per indurre le persone a modificare il modo di lavorare bisogna fornire loro nuovi strumenti che le costringano a pensare e agire diversamente.
Si capisce allora come per l’implementazione di questi progetti non basti scegliere i fornitori it più adatti per garantire un’infrastruttura tecnologica ottimale, quanto piuttosto sia necessario orchestrare un processo di cambiamento organizzativo che consenta alle persone di acquisire le competenze adeguate, modifichi le responsabilità delle singole funzioni e disegni in modo differente tanto i flussi informativi quanto i processi decisionali.
Chi non opera nel settore leggerà queste notizie con curiosità, riservandosi magari di verificare tra qualche anno che tipo di sviluppo avranno avuto le iniziative descritte. Una maggiore attenzione dovranno forse porre le imprese distributive e di prodotti di marca del largo consumo. Perché se fino allo scorso febbraio potevano dormire sonni relativamente tranquilli, in quanto la quota dell’ecommerce di prodotti grocery nel mondo occidentale era ancora piuttosto bassa, il lockdown ha impresso un’accelerazione significativa a un processo di crescita già in corso sia per la spesa online del largo consumo sia per la consegna di pasti pronti a domicilio, che rappresenta comunque una forma indiretta di concorrenza. E chi vende in rete ai propri clienti finali fa già un uso estremamente sofisticato tanto degli strumenti di analisi delle informazioni quanto di quelli per ottimizzare la comunicazione digitale.

WALMART HA CREATO UNA PIATTAFORMA PER UTILIZZARE I DATI

Ci sono casi di retailer che sono divenuti indipendenti dalle terze parti specializzate nell’utilizzo dei dati del cliente. Un esempio arriva da Walmart che, nell’ambito del suo Media Group, ha lanciato Performance DashBoard, una piattaforma che consente alle marche inserzioniste di disporre in tempo reale dei dati relativi alle transazioni on e offline per misurare l’efficacia delle campagne realizzate con Walmart Display e Sponsored Products attraverso lo strumento self-service Walmart Ad Center.
Ovvero, non solo il retailer condivide le informazioni relative ai clienti con i suoi fornitori, ma consente loro addirittura di pianificare campagne di comunicazione in modo autonomo e di misurarne i risultati. Una rivoluzione – ancor prima di natura filosofica che tecnologica – nell’ambito dei rapporti tra industria e distribuzione che, probabilmente, è anche all’origine dell’interessamento da parte del colosso retail a rilevare insieme a Microsoft le attività americane di TikTok, che rappresenterebbe una potente freccia esclusiva al suo arco.

INVERSIONE DI RUOLI TRA INDUSTRIA E DISTRIBUZIONE

Un retailer che raggiunge la capacità di governare in completa autonomia i dati in suo possesso può anche ipotizzare di offrire ai propri partner industriali un servizio di gestione delle loro campagne di comunicazione che si avvalgano delle informazioni relative alla clientela. Una modalità che presenta peraltro il vantaggio di verificare costantemente la coerenza tra quanto la marca desidera comunicare e gli obiettivi commerciali e di marketing del retailer. Si tratta però di un’opzione che comporta la necessità d’istituire delle figure d’interfaccia al servizio dei fornitori dell’industria con capacità di vendita, di coordinamento interno e, soprattutto, di servicing. Il che implica evidentemente un’inversione di ruoli tra chi acquista e chi deve fornire il servizio rispetto agli abituali rapporti industria/ distribuzione. Perché se il “cliente marca” non è soddisfatto del servizio prestato, non investirà più sullo strumento, minandone le potenzialità di fatturato.

Filippo Genzini

Ho sempre lavorato nel settore dei servizi innovativi di marketing per le aziende del largo consumo e - in particolare - del retail, sia sul fronte della marketing intelligence sia su quello della comunicazione, con una focalizzazione sull’approccio customer centric. Hobby prediletti: la scrittura e la musica. genzini@admirabilia.it www.ilcommissariozarotti.com