Pur preferendo trattare in questa rubrica temi internazionali, l’obiettivo è ovviamente quello di affrontare argomenti che possano essere di interesse anche per gli operatori economici italiani. Questa volta, tuttavia, sebbene non mi consideri un campione significativo a livello statistico, farò un’eccezione partendo da due mie esperienze estremamente personali. La prima è sotto gli occhi di tutti. Non so voi, ma a me capita spesso di visitare supermercati caratterizzati da un layout che presenta subito dopo l’ingresso i reparti freschi e freschissimi, i prodotti grocery al centro e le bevande in fondo, prima dei surgelati. Una scelta che a mio avviso non off re affatto la migliore esperienza d’acquisto. È possibile, infatti, che chi decide l’organizzazione degli spazi non faccia mai la spesa settimanale – quella di rifornimento – magari d’estate? Perché, se avesse provato l’esperienza, avrebbe notato come, una volta raggiunte le casse dopo 30/40 minuti di navigazione tra gli scaffali, molti prodotti ormai si siano scaldati, interrompendo di fatto la catena del freddo. Ma, poi, è possibile che non balzi agli occhi di nessuno che sistemare le bottiglie di vino o d’olio, i fustini dei detersivi e i blister dell’acqua minerale sopra le fragole, le uova, gli yogurt, la pasta fresca e lo stracchino – ma se per questo anche i frollini – li riduce in poltiglia e ne rovina le confezioni, pregiudicando ulteriormente tanto la presentabilità che la durata dei prodotti stessi?
Evidentemente c’è qualcosa che non so. Forse il mio modo di fare la spesa in senso inverso, partendo dai prodotti pesanti e da quelli a lunga conservazione, è atipico. Oppure chi dovrebbe non legge i dati relativi agli scontrini dei clienti, analizzando i carrelli della spesa per trarne indicazioni preziose sulle loro esigenze e ispirazione per garantire la migliore esperienza d’acquisto da proporre loro. E, se anche lo fa, non distingue tra gli scontrini importanti e quelli marginali. Non faccio nomi, ma ho il forte sospetto, avendo lavorato a stretto contatto per quasi trent’anni con le più svariate realtà distributive, che la risposta giusta sia la seconda. Anche perché almeno un’eccezione c’è e, guarda caso, si tratta di un’insegna che, utilizzando almeno dal 2000 le informazioni relative ai comportamenti d’acquisto dei clienti, ha scelto una soluzione originale nell’articolazione dei reparti che rispecchia il ragionamento che facevo prima. Una prima conclusione è che si fa tanto parlare di esperienze “senza cuciture” per quanto riguarda il mondo digitale e le sue intersezioni con quello analogico, ma forse sarebbe il caso di fare un passo indietro, ripartendo dai fondamentali.
Un altro esempio? Sempre per motivi di comodità, mi è capitato nel corso dell’ultimo lustro in un primo momento di abbandonare l’insegna abituale per una nuova, poi di lasciare questa per tornare alla precedente e, infine, di suddividere la spesa tra quest’ultima e una terza di cui non frequenterei i negozi, ma che per l’online mi sembra offrire maggiori garanzie. Posso dire senza tema di essere smentito di non aver ricevuto un solo messaggio da parte delle prime due, né volto a cercare di trattenermi nel momento in cui cominciavo a diradare le visite o a ridurre l’importo del mio scontrino, né a posteriori per capire il motivo del mio abbandono. E dato che si tratta comunque della spesa di una famiglia di quattro adulti, rappresenta una perdita di parecchie migliaia di euro l’anno. La seconda conclusione, allora, è che – al di là delle dichiarazioni di facciata che vedono tutti concordi – sono davvero poche le insegne che mettono al centro il cliente.
Una cultura ancora orientata più al prodotto, alle logiche degli acquisti o alla logistica che al cliente rappresenta un problema, nel momento in cui è in corso una discontinuità che ha esasperato i fenomeni d’infedeltà, mentre i nuovi player alzano l’asticella con livelli di customer care decisamente superiori.
Anche perché un recente studio di Nielsen, condotto in 15 paesi e citato sul suo sito nell’articolo “Billions in consumer spending are shifting as Covid-19 forces widespread retail disruption”, ha riscontrato due fatti piuttosto rilevanti. Innanzitutto, è diminuita la concentrazione degli store. Così, per esempio, se negli Stati Uniti prima era il 21% dei punti di vendita a rappresentare l’80% del fatturato dei prodotti di largo consumo, tra marzo e agosto di quest’anno ne sono serviti il 22%. Movimenti quasi irrilevanti a livello percentuale che però rappresentano uno spostamento di miliardi di dollari. Ma, al di là di una superficie che non sembra nemmeno così agitata, è sotto che si muovono le acque. Perché tra i negozi top – quelli che per convenzione rappresentano l’80% del fatturato complessivo – ci sono stati nello stesso periodo spostamenti in entrata e uscita che vanno dall’1 al 10%, a seconda dei paesi. Segno che i clienti hanno cambiato negozi di riferimento e, insieme, mosso grandi volumi di acquisti.
D’altronde, venendo a casa nostra, la ricerca condotta sempre da Nielsen per il Convegno dell’Osservatorio Fedeltà tenutosi lo scorso ottobre parla chiaro: 6,7 milioni di famiglie italiane, pari al 27% del totale, dopo il primo lockdown avevano cambiato insegna. E la stragrande maggioranza dei motivi addotti attiene all’area della “convenience” nel senso attribuito dagli americani: il nuovo punto di vendita è vicino a casa o di strada (42% degli intervistati), farci la spesa è diventata un’abitudine durante il lockdown (20%), è meno affollato (20%), la minor ressa all’entrata o alle casse permette di risparmiare tempo (19%). Giusto per avere un termine di paragone, i prezzi migliori e una più ampia offerta promozionale sono indicati come motivi del cambiamento solo dal 23% degli intervistati. Dal che si evince che tanto l’aggressività commerciale quanto l’effetto omologazione nell’attuale momento storico funzionano meno bene che in passato. Ma se queste sono le indicazioni a livello estremamente macro, chissà quante e di quale portata sono quelle più micro, che in pochi si prendono la briga di analizzare.
Intanto, sempre le immediate conseguenze della pandemia hanno fatto compiere in pochi mesi all’ecommerce del settore un balzo in avanti di quattro o cinque anni. Un canale che prima era marginale non lo è più e ciò apre le porte a una concorrenza più o meno specialistica che comprende vecchi e nuovi soggetti, spesso davvero bravi nel mettere il cliente al centro delle proprie attenzioni. Proprio un recente articolo pubblicato sul sito di McKinsey con il titolo “Think fast: How to accelerate e-commerce growth” ribadiva come i retailer di successo si distinguano dagli altri per tre aree di eccellenza: la capacità appunto di essere customer centric, con tutto quello che comporta in termini di conoscenza della propria clientela, l’abilità nell’incentivare la sperimentazione, imparando tanto dai risultati positivi quanto da quelli negativi, l’agilità infine di tutte le funzioni nell’implementare quanto appreso per migliorare la soddisfazione dei clienti ed essere più efficienti.
Non si scappa: il possesso e l’utilizzo delle informazioni sono alla base del successo di tutte le aziende, rappresentando una condizione se non sufficiente senz’altro necessaria, imprescindibile direi.
E, ovviamente, quelle zero o first party, come vengono chiamate quando sono cedute direttamente dalla clientela all’azienda nell’ambito del rapporto di fiducia che si crea, sono più efficaci per personalizzare la relazione, mentre le altre rappresentano un utile complemento. Sorprende allora come nel 2020 molti distributori del largo consumo prendano ancora decisioni che comportano investimenti per centinaia di migliaia o milioni di euro basandosi soprattutto sull’esperienza personale, l’intuito e la preveggenza del loro top management, benché dispongano di tutte le informazioni necessarie, avendo una frequentazione quotidiana con la clientela e strumenti a disposizione per fotografarne e interpretarne i comportamenti. Una lacuna ancora più grave se confrontata con gli investimenti consistenti in strumenti e formazione compiuti da molte società – tanto b2b che b2c – che un po’ in tutti i settori stanno colmando il gap nei confronti di quelle operanti nel d2c (direct to consumer) digitale, che per loro stessa natura tracciano la storia della relazione con la clientela fin dal primo contatto.
E allora? Credo che lo scoglio insormontabile, prima ancora che nella disponibilità degli strumenti, stia nella cultura aziendale e nel sedimentarsi dei metodi di lavoro. Perché la raccolta dei dati comporta degli investimenti non insormontabili. Quelli transazionali, peraltro, alimentano diversi processi aziendali che interessano le vendite, gli acquisti e la logistica. Oltre al marketing, ovviamente. E da questo tipo di dati di base si possono ricavare già informazioni importanti sui comportamenti complessivi della clientela in termini di orari di visita, scontrini medi, composizione del carrello della spesa, metodi di pagamento ecc. Se fossimo in ambito fotografico, direi che con queste informazioni abbiamo acquisito l’immagine del paesaggio. Ma, nel caso l’insegna disponga di un programma fedeltà che giustifica l’emissione di una carta o di un altro identificativo personale, ecco che possiamo usare il teleobiettivo per misurare i comportamenti del singolo cliente nel tempo. Il che ci consente di acquisire informazioni come la spesa media annua, la composizione del carrello, la frequenza di visita, i touchpoint preferiti, la reazione agli stimoli di marketing. Tutte utili per segmentare i clienti (che non sono tutti uguali!) e indirizzare loro messaggi promozionali mirati. Tuttavia, poiché in questo modo il distributore può comprendere cosa accade nei suoi punti di vendita fisici e virtuali, ma non quanto succede fuori, ha bisogno anche di un grand’angolo, rappresentato dalle informazioni dei panel continuativi che forniscono aggiornamenti costanti sull’andamento del mercato e della concorrenza a livello geografico e di formati, così come delle soluzioni disponibili per rilevare i comportamenti on e offline.
Altri dati possono essere poi integrati in una logica di ecosistema informativo, se s’instaurano processi di scambi di informazioni con dei partner commerciali, come per esempio i fornitori stessi o i partecipanti a una coalition. Infine, siccome serve a poco sapere cosa accade senza comprenderne i motivi, attraverso le ricerche qualitative e quantitative i retailer possono dare voce ai clienti, per scoprire le motivazioni, gli atteggiamenti e le attitudini nei confronti di un’insegna o di un canale rispetto a quelli concorrenti. Un percorso reiterato e continuativo, visto che il mondo corre, che consente di passare da una fotografia in bianco e nero a un film a colori con il sonoro.
I fornitori di strumenti e soluzioni di qualità sul mercato abbondano, motivo per cui non vale la pena reinventare ogni volta la ruota.
Le figure senior commerciali e marketing, coadiuvate dai responsabili dei sistemi informativi, sono in grado di selezionare le proposte migliori in funzione dei bisogni. Un buon ricercatore e qualche analista poi rappresentano l’impegno in termini di risorse umane per impostare un reparto di marketing intelligence in grado di alimentare tutti i processi decisionali aziendali.
Le fonti informative disponibili indicate rappresentano tuttavia condizioni necessarie ma non sufficienti, perché occorre che in azienda vi sia la volontà di portare la voce del cliente in orizzontale in tutte le funzioni che possono contribuire alla sua soddisfazione e in verticale a partire dal personale di frontend fino ai vertici deputati alle decisioni relative tanto agli obiettivi da perseguire quanto agli investimenti necessari per assicurarne il raggiungimento. Gli illustri esempi che possiamo trovare all’estero, con le varie Walmart, Target, Kroger e Tesco, c’insegnano come l’eccellenza nella customer experience non si può perseguire senza il committment del top management a introdurre nuovi strumenti che facilitino il cambiamento nel modo di lavorare. Questo rappresenta ancora un punto di debolezza in Italia e non sono io a dirlo. Infatti, la ricerca condotta sulle aziende direttamente dal Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università di Parma, sempre per il Convegno dell’Osservatorio Fedeltà, ha scoperto che solo il 28% del campione condivide gli insight di cliente tra reparti e livelli gerarchici, mentre in percentuali ancora più basse integrano le informazioni della clientela provenienti da touchpoint o funzioni aziendali diversi, da fonti interne ed esterne ecc. Ma, soprattutto, solo il 23% del top management è impegnato direttamente sul fronte della customer experience e solo il 19% è abituato a utilizzare gli insight di cliente per prendere le decisioni strategiche. A onor del vero, la gdo rappresentava solo il 18% del campione. Ma il retail nel complesso era il 40% e le aziende con accesso diretto alla clientela almeno il 57%. Un altro 22%, infine, era rappresentato dall’industria del largo consumo, che si è sempre distinta per una certa scientificità dell’approccio al marketing. Insomma, concludendo, se è vero che il nostro retail grocery è in buona compagnia nel ritardo accumulato sul fronte dell’adozione di un approccio customer centric, resta il fatto che lo shock provocato dalle conseguenze del Covid-19 rischia di avere serie ripercussioni sull’ampia percentuale di follower sempre abili nel copiare quello che vedono – comunicazione e promozioni di massa – ma impossibilitati a emulare ciò che per propria natura non è sotto gli occhi di tutti: ovvero quel customer relationship management basato sulla centralità del cliente e la personalizzazione della relazione. Che, non mi stancherò mai di ripeterlo, nella sua accezione più ristretta dovrebbe occuparsi di ottimizzare i rapporti con i clienti esistenti e non di reclutamento. Perché altrimenti l’avrebbero chiamato prospect relationship management.
Filippo Genzini
Ho sempre lavorato nel settore dei servizi innovativi di marketing per le aziende del largo consumo e - in particolare - del retail, sia sul fronte della marketing intelligence sia su quello della comunicazione, con una focalizzazione sull’approccio customer centric. Hobby prediletti: la scrittura e la musica. genzini@admirabilia.it www.ilcommissariozarotti.com