Motori di ricerca, app, messaggistica, piattaforme social, ecommerce, siti e via elencando non fanno altro che inquadrare nel mirino chi li sta visitando. I cookies costruiscono attorno a ogni “individuato” un profilo per poi venderlo a chi cerca un “individuo” somigliante. Peccato che i cookies in realtà siano capaci solo di tracciare l’id di un pc o di uno smartphone senza sapere se a digitare e navigare sia uno scimpanzé ben addestrato (e ce ne sono), un ragazzino annoiato, un adulto consapevole.
Il risultato è un bombardamento di pubblicità che nessuno vuole vedere e che disturba…
Per anni si sono vendute e comprate “sembianze” di individui, che metriche costruite su misura esaltavano come opportunità imperdibili. Il risultato è un bombardamento di pubblicità che nessuno vuole vedere e che disturba quando sul web si sta seriamente cercando quel che davvero serve, una serie infinita di proposte che nessuno comprerà mai sia perché improprie sia perché le ricerche confermano che la visita al negozio brick&mortar fa parte integrante, per qualsivoglia bene, del percorso di decisione d’acquisto.
Quel che spinge la preferenza per prodotti e servizi non viene da un pop up sullo schermo, ma è ancora l’esperienza personale e diretta, talvolta confrontata con quella di persone vicine, che aiuta a fare scelte. Quando Google ha annunciato l’intenzione (poiché per ora tale è) di rinunciare ai cookies di terze parti entro il 2023, si sono avute le più diverse reazioni. Occorrerebbe trasformare da dubbio in certezza il ruolo inutile che i cookies hanno sempre avuto nei due fondamentali settori del “trovare nuovi clienti” e “conservare quelli attuali”, ovvero i cardini attorno a cui ruota la prosperità di ogni azienda.
I potentissimi e strafottenti (nei confronti della privacy e dei sistemi di tassazione) motori di ricerca ci hanno fatto credere che i cookies di terze parti erano indispensabili sia per dare un servizio ai naviganti sia per rendere proficuo il business di chi li acquistava. Del reale valore che hanno generato per chi li ha comprati nulla si sa. Non è necessario aspettare il 2023: fin da subito le aziende di marca e tutto il mondo del retail devono ricostruire la cultura del servizio al cliente. Una cultura che si basa sull’effettiva conoscenza delle persone reali e delle loro necessità personali. Sono tante le possibilità per incontrare persone reali e in target con l’offerta aziendale. Gli owned media (sito web, sito di ecommerce, piattaforme social) le possono accogliere e intrattenere, tenendo solo per sé questi contatti che vanno a costituire un database da coltivare con cura e rispetto per le persone. Anche il call center di customer care ha un ruolo importante come ogni strumento di ascolto.
Vanno ridefiniti i referral program poiché portano persone reali a unirsi ad altre persone di cui hanno fiducia, condividendone le scelte. Vanno tenuti aperti quanti più canali e touchpoint possibili. Si apre una nuova stagione per le campagne di promozione e di loyalty rispettose, divertenti e generose.
Andrea Demodena
Dopo la frequenza di Economia e commercio in Cattolica, si iscrive a Lettere Moderne, presso l’Università Statale di Milano, laureandosi a pieni voti con una tesi in storia dell’arte contemporanea. Come giornalista ha collaborato con Juliet, Art Show, Tecniche Nuove, Condé Nast, Il Secolo XIX, Il Sole 24Ore. Dal 2000 si occupa di marketing e promozioni. Dal 2014 è direttore di Promotion.