Dal raffronto tra il giudizio espresso dai clienti e le quote di mercato di un’insegna emerge una relazione perlopiù costante. Eventuali scostamenti dalla media sono segnali che i retailer dovrebbero tenere in particolare considerazione.
Può sembrare strano (ad alcuni) ma sotto la figura del cliente si nasconde quella di un essere umano che utilizza un tipo di conoscenza, sovente al di fuori del comune concetto di razionalità. La conoscenza del vantaggio potenziale derivante dalla scelta di un supermercato, per esempio, presuppone quello che Hans-Georg Gadamer chiamava un “orizzonte incessantemente mutevole”, cioè un punto di vista selettivo e condizionato temporalmente. Ne discende che i giudizi dell’“uomo comune” sulle varie qualità sensoriali del punto di vendita e la loro distinzione saranno modificati da sempre nuove esperienze.
L’immagine di prezzo di un negozio è basata sulla percezione piuttosto che sulla realtà quantificabile
Ma perché selettivo? Perché condizionato temporalmente? Semplice: fare shopping significa raccogliere sensazioni, ovvero interpretazioni di eventi che, alla luce dell’esperienza passata, divengono una sorta di conoscenza accumulata. Tale è il goodwill, l’attributo immateriale associato al valore di un’azienda e del suo trade-mark. È quel concetto che, nella management science, consente di valutare il valore intangibile, ma non per questo meno reale, di una realtà produttiva; un concetto che tiene conto della comunicazione passata, del know how, della net-positive reputation ecc. Innumerevoli studi portano all’idea che aumentando o variando la scelta, la capacità di gestire le alternative e il desiderio umano di scegliere mutino significativamente e così anche il goodwill sopramenzionato.
La scelta di un punto di vendita è un complesso meccanismo fisiologico che funziona attraverso un continuo processo di classificazione e riclassificazione delle impressioni sensoriali. In base a esse acquisiamo conoscenze rilevanti che guideranno, in base all’ esperienza cosciente, le decisioni e le azioni successive. L’ordine sensoriale che ci guida è un meccanismo mentale che classifica le percezioni che non possono essere spiegate dalle leggi fisiche. A differenza dell’ordine fisico che classifica gli eventi come simili o diversi, dunque, l’ordine sensoriale classifica gli eventi in base alle loro proprietà e a impressioni sensorie che, rafforzate da percezioni ripetute, si trasformano in valori di coscienza. È questo processo che identifica il metro di giudizio (edonico e utilitaristico) sulla qualità delle tante insegne analizzate dal Cx Store Award.
La qualità di un servizio polifonico di un retailer, però, è concettualmente diversa da quella di un servizio monodico come quello di un parrucchiere, del trasporto ferroviario, di un ristorante o semplicemente di un prodotto industriale. Ma c’è anche un altro punto di vista: le valutazioni dei consumatori sui livelli e sulle variazioni di prezzo che differiscono tra insegne e quelle sulla composizione dell’offerta. Tuttavia, nella comparazione dei prezzi, esiste una ineliminabile ambiguità. Essa parte da una valutazione uno-a-uno di pochi identici prodotti, ma poi si estende confusamente all’ insieme di ciò che definiamo il carrello della spesa. In breve, si incorre nella fallacia che la logica chiama “hasty generalization”. Ma quali tra tutti i prezzi osservabili influenzano maggiormente la decisione di acquisto? La risposta è semplicemente impossibile in barba a tutti i big data e gli algoritmi a essi applicabili. Perché? Perché dietro a ogni cliente c’è sempre un essere umano con tutte le sue contraddizioni e i suoi preconcetti.
Essendo poi la composizione dell’offerta notevolmente diversa, il prezzo svolge due ruoli antitetici nelle nostre menti. Uno è positivo, come segnale di alta qualità. L’altro è negativo, come sacrificio monetario che facciamo in cambio di quel bene o di quel servizio. Il primo aspetto introduce la vexata quaestio della qualità. A questo proposito va detto che i retailer sono schiavi del marketing delle industrie e non comprendono che la reputation di un supermercato, agli occhi di un loro cliente, dipende da quel 40%, 50% o 60% di prodotti di qualità variabile. Dal sito di Esselunga, per esempio, abbiamo dedotto che il Bertani, Amarone della Valpolicella classico (82,90 euro) costa 2,59 volte il Guerrieri Rizzardi, Amarone della Valpolicella classico docg (32 euro). Ciò significa che il Bertani è 2,59 volte più buono del Guerrieri Rizzardi? La risposta è: forse molto di più o forse molto di meno a seconda di chi li degusta. Ma, a maggior ragione, tra un melone marchiato Lorenzini che sfiora i 20 gradi Brix e costa 4 euro al kg e uno generico da 8 Brix venduto al prezzo di 1,50 euro, il piacere gustativo è doppio? Sicuramente no! È molto di più. Perché il melone o è buono o sono soldi buttati.
Un grande goodwill è la premessa per una crescita futura molto più veloce dei competitor
Insomma, l’immagine di prezzo del negozio è basata sulla percezione piuttosto che sulla realtà quantificabile e ciò non facilita il processo di creazione del posizionamento desiderato. Il prof. F.E. Brown evidenziò, già nel 1969, come le sensazioni ricevute possano differire dal vero stato del mercato. Jack Trout ribadì, nel 2008, in “Search of the Obvious” che il marketing non è una battaglia di prodotti, è una battaglia di percezioni. Stephan Zielke (2006, 2011) affermò che l’immagine del prezzo è una variabile multidimensionale e latente che consiste di convinzioni soggettive e sentimenti, e che tante concettualizzazioni trascurano il lato emotivo di questo costrutto. Infine, B.P.S. Murthi e Ram Rao conclusero anch’essi, nel 2012, che gli acquirenti visitano i negozi in base alle loro convinzioni e sentimenti soggettivi riferibili alla “price image” di un’insegna.
Una prima conclusione è che il rapporto qualità/prezzo tanto spesso citato è una fuzzy variable, derivata da caratteristiche imprecise, linguisticamente vaghe, difficilmente esprimibili da parte del cliente e non quantificabili da parte del ricercatore. In base a queste considerazioni, allora, la nostra soluzione consiste nel raccogliere il giudizio sul miglior rapporto qualità/prezzo tra coloro che dichiarano di fare acquisti in certi supermercati, per quanto esso sia del tutto soggettivo e non esprimibile in numeri. In sostanza la preferenza così attribuita a un’insegna costituisce un goodwill. Si può ottenere allora una nuova metrica, esprimibile in termini percentuali, come il numero di coloro che indicano una determinata insegna come offerente il miglior rapporto q/p, rapportato a quello delle famiglie residenti in Italia o in una certa zona. Ma che utilità può avere un simile indicatore? I suoi apporti analitici sono molteplici, ma uno particolarmente interessante è la relazione con le quote di mercato delle insegne. Abbiamo considerato alcune tra le principali insegne presenti in Italia e confrontato il loro goodwill assoluto, ossia i giudizi di miglior rapporto qualità/prezzo rapportati al numero di famiglie residenti nell’area in cui sono presenti le insegne. Dopodiché abbiamo messo in relazione questo dato raccolto attraverso la ricerca Cx Store con le quote di mercato rielaborate sulla base della Guida Nielsen del Largo consumo di NielsenIQ.
Il grafico riportato mostra come esista una notevole correlazione tra i due dati: tendenzialmente (come rappresentato dalla retta di regressione quasi perfettamente diagonale), il rapporto è stabile, maggiore è la quota di mercato, maggiore il goodwill assoluto. Ci sono però delle eccezioni, rappresentate da Eurospin e Lidl che definiremo “outlier”, perché collocate sul grafico evidentemente in posizione anomala, quasi a inficiare la regolarità statistica sottostante. Queste due insegne hanno infatti un goodwill quasi doppio rispetto alle loro quote di mercato. È vero però anche il caso opposto di qualche retailer che si colloca sotto la retta di regressione. L’ipotesi che proponiamo di condividere è, in conclusione, che un grande goodwill, una grande reputation, è la premessa per una crescita futura molto più veloce dei competitor. Viceversa, le insegne che si collocano al di sotto del rapporto paritario tra apprezzamento della clientela e quote di mercato rischiano un’erosione lenta ma progressiva dei loro fatturati. E ciò sembra comprovato dall’osservazione dell’attuale andamento del mercato.