La mutazione dell’industria pesta la coda del retail 

L’automazione sempre più spinta porta flessibilità ai brand, consentendo di estendere le referenze a classi e sottoclassi di prodotto. ai retailer il compito di gestire la coda lunga delle specialità e delle “stranezze” legate ai trend più di nicchia e più recenti.

Le società capitalistiche sono o dovrebbero essere un sistema aperto in cui le innovazioni e le nuove tecnologie si diffondono agevolmente sia pur con tempi diversi, ovunque esista la famosa “domanda” o dove essa possa essere evocata con le tecniche del marketing. Il libero mercato, finora, si è dimostrato il processo più efficiente che l’umanità abbia trovato per organizzare la naturale propensione degli uomini e delle loro istituzioni allo scambio e alla collaborazione.

Robotica e software migliorano la flessibilità produttiva, le tecnologie alimentari e il trattamento delle informazioni per gestire la relazione con il trade

Se oggi la conoscenza circola attraverso flussi incalcolabili per dimensione e, in gran parte, incontrollabili, resta un problema fondamentale: ovvero come raccogliere, sistematizzare e utilizzare le informazioni per sviluppare processi innovativi capaci – parafrasando Friedrich Bastiat – di ridurre il prezzo delle merci o dei servizi esistenti. Aziende come Deliveroo sono innovative perché apportano certamente un vantaggio ai consumatori, con una riduzione di prezzo di un particolare genere di consumo, il food-away-from-home, facendolo rientrare in ambito casalingo. Innovativa fu anche l’idea che motivò i fratelli McDonald, quando a Pasadina, nel 1948, trasformarono il loro ristorante Airdrome dedicato al bbq in un drive-in che offriva hamburger. Il concetto innovativo era semplice. I clienti già si portavano la propria seduta (l’auto), dunque bastava dare loro qualcosa che non richiedesse le posate a un prezzo ridotto: un burger avvolto nella carta, appunto.

Le innovazioni di successo osservate in passato sembra facciano più fatica ad affermarsi e il numero di outsider o di disruptor capaci di emergere sul mercato sembra ridursi. In particolare, la crisi che si è generata a partire dal 2019, prima negli Usa, a causa della bolla speculativa legata alle criptovalute e all’hi-tech, e poi da noi per la pandemia e seguentemente per l’accendersi dell’inflazione, sembra aver frenato lo sviluppo delle aziende innovative giovani o di piccola dimensione. Al contrario, le big company (limitandoci al mondo dei consumi) e le grandi catene commerciali sembrano essere uscite indenni dalla crisi, se non rafforzate, almeno in senso relativo. Una spiegazione avanzata da autorevoli economisti circa questa resistenza delle incumbent o imprese dominanti nei vari segmenti di mercato risiede nei loro grandi investimenti in software. Contrariamente all’idea di una loro intrinseca inerzia, grazie a una rinnovata capacità di trattare l’informazione e alla riorganizzazione delle catene produttive e della supply chain esse hanno acquisito una superiore capacità adattativa.

Non è più il tempo in cui le grandi marche attraevano i clienti verso un insieme contenuto di alternative, alimentando così il core business dei grandi retailer

Se la teoria classica spiegava la forza e la durata esistenziale delle big company con le economie di scala, oggi questa spiegazione non convince più, perché i mercati sono cambiati, allargandosi a una dimensione globale, e il potere delle poche marche “mitiche” di grandi corporation che entravano negli stili di vita di tutti, omologandoli, è di molto diminuito. Di conseguenza le grandi multinazionali si sono dedicate a una crescente diversificazione dei loro cataloghi, acquisendo aziende innovative, ma troppo piccole e finanziariamente fragili e, soprattutto, sviluppando la loro r&d. L’elemento decisivo, dicono studiosi come James Bessen della Boston University School of Law, è lo sviluppo dei nuovi software, potenti e costosi che consentono loro di combinare i vantaggi della scalabilità dimensionale verso l’alto con i vantaggi della mass-customization, cioè la personalizzazione di massa di un numero sempre maggiore di varianti: quello che apparentemente è un ossimoro è stato risolto grazie alla capacità di trattare l’informazione disponibile per orientare produzione e distribuzione con modalità flessibili e mirate.

Vicenzi ha rivitalizzato il marchio Grisbì, proponendo gusti diversi e una sequenza ininterrotta di limited edition.

Si prenda per esempio il marchio Oreo di Mondelez che conta centinaia di edizioni diverse o si pensi all’analoga specializzazione di Vicenzi che ha rivitalizzato il marchio Grisbì, proponendone oggi 24 gusti diversi e una sequenza ininterrotta di limited edition. Sul fronte distributivo, 40.000 referenze alimentari allineate sugli scaffali degli ipermercati Tosano, in luoghi come Orzinuovi o Legnago (cittadine che non sono certamente delle melting pot come Milano o Londra), sono un esempio dello stravolgimento di vecchie convenzioni che vedevano le grandi marche nazionali e internazionali attrarre i clienti verso un insieme contenuto di alternative, alimentando così il core business dei grandi retailer.

Contrariamente a quello che pensano in prima battuta alcuni manager, il mercato esprime il bisogno di molti più prodotti. In un mondo sovraffollato di proposte con una rete distributiva che ormai sul territorio nazionale non esclude l’accesso a nessuno, i consumatori “pascolano nella varietà” e ogni loro visita a un punto di vendita è una nuova esplorazione. Il tutto grazie a un’innovazione su cui si focalizzano gli investimenti. Oggi, i software che consentono di dare flessibilità alla produzione, fanno altrettanto con la distribuzione, la cui logistica interna ed esterna al punto di vendita ha fatto progressi enormi e misconosciuti.

In breve, i retailer più avanzati diventano sempre più abili nel gestire la “coda lunga” delle specialità e delle “stranezze” legate ai trend più di nicchia e più recenti. Così Mutti entra nel settore delle zuppe fresche confezionate, negando la logica ristretta del monoprodotto, come pure testimoniano i gelati di Barilla, Ferrero, Loacker, Scotti. Insomma, sebbene si teorizzi la snellezza assortimentale e la focalizzazione sul core business, tutte le aziende cercano di sconfinare nel campo degli altri con sorprendente facilità e incuranti del numero di referenze che già circolano nel mercato. Tanti prevedono flop clamorosi. Pochi reputano invece che grazie alla robotica e all’automazione migliora la flessibilità produttiva, progrediscono le tecnologie alimentari, si agevola la relazione con il trade grazie all’efficienza nel trattamento delle informazioni necessarie a gestire la continua mutazione delle classi di prodotto e delle loro sottoclassi.

Sebbene un’accelerazione nella continua diversificazione degli assortimenti disponibili per il grande pubblico non possa essere negata alla luce dei fatti, molti pensano che questa sia una specie di degenerazione, un frutto dell’irrazionalità di imprenditori e manager. Un’analisi più attenta che parte dagli Usa, richiama invece l’attenzione sulle conseguenze positive che derivano dallo sviluppo dei software più avanzati applicati sia ai processi produttivi sia a quelli commerciali. Le grandi corporation diventano sempre più abili nel lavorare in piccolo e per specifici target. I grandi retailer sono forzati, loro malgrado, a gestire in egual misura la loro risorsa più scarsa, ovvero gli spazi destinati alla vendita. Dopo gli enormi progressi nella gestione dei warehouse, ora devono utilizzare in modo fine gli spazi a scaffale per ospitare ciò che pretendono i microtarget sempre più numerosi in un mondo dove non esiste più la “nicchia di mercato”, ma un mercato fatto di nicchie.

 

Daniele Tirelli