Non v’è dubbio che la strega cattiva della favola di Biancaneve soffra di un disordine narcisistico della personalità, così come molti dittatori che pretendono di essere amati da tutto il popolo, anche a costo di inaudite crudeltà. Tendenzialmente, anche i retailer nella persona dei loro top manager nutrono, sotto sotto, l’idea che tutti dovrebbero apprezzare i prezzi che affiggono sui loro scaffali, tenuto conto della qualità di ciò che offrono e dell’impegno che profondono. Così non è. Non si può piacere a tutti, ahimè. Ogni insegna operante sul mercato, si trova, inevitabilmente, ad avere una clientela che, dal punto di vista della propensione ad acquistare, si suddivide tra chi valuta positivamente i prezzi a parità di qualità dei concorrenti; chi apprezza la qualità a parità di prezzi con i competitor; chi apprezza sia la qualità sia i prezzi migliori delle alternative disponibili; chi infine non apprezza né gli uni né l’altra, ma frequenta il punto di vendita a seconda delle circostanze, solo per puro utilitarismo. Chiediamoci allora perché questa ripartizione si verifica per tutte le insegne italiane, seppur in diverse proporzioni.
La spiegazione può essere trovata partendo da due presupposti: il primo è l’assunto di base della microeconomia classica, ovvero il principio che il valore economico di qualunque cosa è un’espressione del tutto soggettiva; il secondo, di natura sociologica, è che il commercio, nelle società contemporanee, si basa su tecniche di vendita che prevedono l’assenza di contrattazione e prezzi fissi per tutti, imposti dall’adozione del cosiddetto self-service. Possiamo aggiungere che, nel caso della distribuzione al dettaglio, l’offerta non è univoca, ma viene costruita in base alle preferenze del singolo cliente. Ne discende che non esiste il famoso “paniere della spesa”, ma infiniti panieri che variano, da individuo a individuo, di giorno in giorno, da luogo a luogo. Se avete esperienza di un suk turco o arabo conoscerete le lunghe e spesso divertenti contrattazioni che vi si intrattengono. Ebbene, in questo caso, il risultato è che tutti i clienti che comprano sono soddisfatti del prezzo e della qualità! Anche se essi sono diversi per ciascuno di loro. La ragione è che hanno contribuito loro a determinarlo, ovviamente perché non avevano una base di paragone con tutte le altre precedenti contrattazioni. Insomma, quando avviene lo scambio nel suk, il prezzo è giusto per definizione.
Al contrario, a partire dal 1917, quando Clarence Saunders inventò a Memphis (Tennessee) il negozio a libero servizio, cioè con i prezzi fissi per tutti e nessuna interazione con il personale di vendita, il paradigma della vendita al dettaglio cambiò radicalmente. La predisposizione a pagare un certo prezzo per un insieme di beni, si è detto, è diversa da individuo a individuo. Ne consegue, pertanto, che il venditore rinuncia a estrarre il massimo profitto dai clienti che sarebbero disposti a pagare un prezzo più alto di quello scritto nello slim. La teoria economica dice quindi che essi godono del “surplus del consumatore”. Naturalmente, la realtà è molto più complessa, perché esistono tanti fattori che rendono vischioso lo spostamento del goodwill della clientela e, conseguentemente, delle sue decisioni di acquisto nelle varie insegne. La vicinanza del punto di vendita, la velocità delle casse, l’ambiente e l’accoglienza, i programmi fedeltà, la ricchezza assortimentale, i servizi accessori ecc. Tanti sono i motivi per marcare piccole, ma significative differenze tra le alternative disponibili. Tuttavia, il nocciolo del ragionamento svolto è la chiave interpretativa dei dati risultati dell’indagine Cx Store 2022, relativi alla risposta alla domanda: “Per quale ragione hai indicato quell’insegna dicendo che ha il migliore rapporto qualità/ prezzo?”, risposta che recita così: “Perché a parità di qualità pratica prezzi migliori”. Si può notare così che Cts, Prix Quality, Todis ecc. sono apprezzati soprattutto per i loro prezzi competitivi. Al contrario, il goodwill di Crai, Alì, Natura Sì si fonda soprattutto su un’immagine di qualità superiore ai loro competitor locali.
Concludendo: a cosa serve il ragionamento sin qui svolto? Certamente è utile a mostrare quanto sia ozioso il dibattito su chi sia l’insegna con i prezzi più bassi in assoluto, al pari della strega cattiva che chiedeva allo specchio chi fosse la più bella del reame. Tutto dipende dal luogo, dalle basi di paragone, dal tipo di cliente e da tutto ciò che nella sua mente ha creato quel certo tipo di imprinting, difficile da cancellare a colpi di promozioni. In poche, semplici parole, se il cliente presta attenzione ai prodotti confezionati e sa che le marche private sono prodotte dagli stessi leader di mercato, allora farà attenzione soprattutto al prezzo. Se il cliente, è attento ai prodotti freschissimi – diciamo la frutta – allora a parità di prezzi farà riferimento (con il rifrattometro come me o con il palato) ai suoi gradi Brix e si concentrerà sulla qualità. In un certo numero di casi fortunati riconoscerà al punto di vendita persino una superiorità sia per i prezzi sia per la qualità, ma più spesso il giudizio sarà ripartito attribuendo maggior peso al prezzo o alla qualità, o addirittura a nessuna delle due variabili (pur continuando a frequentare il punto di vendita per altri motivi). Ecco spiegato, dunque, come sia pericolosamente illusorio pensare che la concorrenza tra distributori si riduca essenzialmente a un continuo, serrato, ineludibile, reciproco confronto dei prezzi. State giocando una partita molto molto più complessa, bellezze!