Titolare di Around Marketing (w ww.aroundmarketing.it)
In Italia gli investimenti in comunicazione stanno vivendo una fase piuttosto critica, dovuta in parte alla congiuntura economica e in parte a fatti strutturali collegabili anche alla specificità del mix di media scelti storicamente dalle aziende. Una situazione che non ci vede soli, stando alle più recenti previsioni formulate a giugno da Zenit Optimedia. Se infatti il mercato globale della pubblicità “misurabile” crescerà del 3,5% nel corso del 2013, con una correzione al ribasso rispetto al precedente 3,9%, i maggiori investimenti sono imputabili soprattutto alla ripresa degli Stati Uniti e allo sviluppo dei consumi nei paesi emergenti (+8,6% contro un + 2,8% di quelli maturi). Nello studio, ahimè, l’Italia è inserita nel cluster dei Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), caratterizzato ancora quest’anno da una caduta degli investimenti (-10,3%, dopo il – 15,4% dello scorso anno), e una previsione di stabilità per il 2014 e crescita modesta per il 2015.
Il maggior contributo in termini di nuovi dollari investiti nel quadriennio 2012-2015 (si parla di circa 73 miliardi di dollari) verrà oltre che dagli Stati Uniti (29% della crescita totale), come già detto, anche da Cina (18%), Argentina (7%), Indonesia (6%), Russia (4%) e, a seguire, da Giappone, Brasile, Corea del Sud, Gran Bretagna e India.
Una dinamica che altera le gerarchie esistenti tra i vari paesi. Infatti le tre nazioni dell’Europa occidentale (Germania, Gran Bretagna e Francia) ancora presenti tra le prime 10 nel 2012 verranno sorpassate dalla Russia nel 2015.
L’asticella della decima posizione, occupata lo scorso anno dalla Corea del Sud con oltre 10,7 miliardi di dollari, l’Italia l’aveva superata agevolmente nel periodo precedente alla crisi, per poi allontanarsene rapidamente. Ricordiamo che il 2012 è terminato con un –14,3% sul 2011, mentre Assocom ha previsto per il 2013 un ulteriore –12,5%, che significherebbe 6,5 miliardi di euro. Ovvero meno di 8,5 miliardi di dollari.
Certo qualcuno potrebbe obiettare a ragione che noi ci occupiamo di promozioni e non di pubblicità, e che quindi il nostro settore può trarre addirittura vantaggio da uno spostamento di budget dalla comunicazione classica al below the line. O dai mezzi classici al digitale, che tanti punti di contatto ha con il nostro mondo. Speriamo! Il rischio, invece, è che quanto accade alla pubblicità rappresenti il termometro di ciò che sta succedendo anche alle discipline complementari o alternative, i cui fatturati sono più difficili da misurare, e che in Italia le aziende stiano continuando a limare i propri investimenti di marketing nel complesso. L’equivalente a livello d’impresa di quello che il paese sta facendo con la ricerca e sviluppo. Non è mia intenzione soffermarmi qui sulle numerose ricadute piuttosto sgradevoli per quanto riguarda il mondo del lavoro, come per esempio il ridimensionamento delle filiali italiane dei colossi della comunicazione e la mancata o perlomeno ritardata apertura di sedi in Italia da parte delle promettenti start-up internazionali, che ruotano prevalentemente intorno al mondo digitale, ma non solo, e potrebbero contribuire allo sviluppo della nostra economia.
M’interessa invece osservare che la pubblicità “misurabile”, quando si confronta nei paesi in via di sviluppo con un pubblico che sta raggiungendo la soglia del benessere economico, può anche venire percepita come un’espressione del progresso nonché di nuovi stili di vita e di consumo, con valenze tutto sommato positive. Nei paesi sviluppati, invece, la fase dell’innamoramento è terminata da tempo e in particolare dal momento in cui,
con l’avvento di televisioni e radio private, alle logiche di seduzione si sono sostituite quelle orientate a creare riflessi condizionati attraverso un bombardamento a tappeto delle audience. Non che l’affollamento eccessivo non abbia toccato anche i periodici, quelli di moda e arredamento in particolare. Tuttavia ritengo che la pubblicità sulla carta stampata abbia un effetto intrusivo e d’interruzione della fruizione del mezzo meno fastidioso.
C’è da dire che il pubblico ha imparato a difendersi dalla presenza invadente della pubblicità, ricorrendo sempre più a nuovi mezzi di comunicazione che consentono, se non di evitarla, almeno di limitarne le continue interruzioni. Ricordiamo qualche anno fa i primi videoregistratori in grado di riconoscere e saltare i passaggi pubblicitari. Poi è stata la volta dei grandi archivi di programmi e della tv on demand. Il mondo digitale, infine, dà la possibilità di scaricare video e musica, evitando i classici palinsesti televisivi e radiofonici e le loro frequenti interruzioni pubblicitarie.
Il fatto, tuttavia, che proprio la rete rappresenti il canale di più forte sviluppo della comunicazione “misurabile” a livello mondiale – secondo Zenit Optimedia la crescita media 2012-2015 sarà del 15%, con un contributo pari al 68% di tutti i dollari incrementali generati – e che la display advertising sia il segmento che cresce di più, costringe anche gli utenti dei media digitali a fare i conti con l’invadenza della pubblicità. Una ricerca recente, realizzata in Gran Bretagna dall’agenzia digitale Greenlight su un campione di utilizzatori di Facebook, ha rilevato che il 15% degli inglesi sarebbe disposto a pagare qualcosa pur di non dover subire la pubblicità. In particolare, l’8% spenderebbe tra le 5 e le 8 sterline al mese per evitarla. Circa il 70% dichiara poi di non cliccare mai o quasi mai sulle display advertising o altre comunicazioni pubblicitarie.
Non sorprende allora se Apple intende posizionare in modo esclusivo il proprio servizio televisivo, il cui lancio pare imminente, utilizzando una tecnologia che consentirà agli spettatori di saltare gli spot commerciali, ma prevedendo anche un modello di business per compensare i network delle minori audience raggiunte. Una soluzione tecnologica simile a quella introdotta da Dish Network lo scorso anno, e subito denunciata dalle reti televisive per la minaccia portata all’ecosistema dei rating televisivi e dei listini pubblicitari a essi associati. Insomma, la lotta tra pubblico e pubblicitari si sta facendo senza quartiere e le aziende di marca, in mezzo, pretendono a ragione di poter misurare l’efficienza dei propri investimenti, secondo gli obiettivi di marketing che si sono prefissate. E gli istituti di ricerca e i certificatori di mercato hanno il loro bel da fare a individuare nuove metodologie e nuovi indicatori per misurare se le comunicazioni pubblicitarie sono viste e sortiscono l’effetto atteso.
Ed ecco il punto di maggior interesse per noi: gli investitori pubblicitari stanno cominciando a chiedere ai propri partner di servizi promozionali di fornire soluzioni per incentivare il consumo della pubblicità. È recente, per esempio, la notizia che L’Oréal, per migliorare l’efficacia della propria pubblicità in chiave di maggiori vendite, abbia testato a Manhattan con Walgreens e Duane Reade, catene di prodotti farmaceutici e per la cura della persona, la soluzione di Sparkfly, in grado di veicolare buoni promozionali attraverso l’app “Pretty in my Pocket”, dedicata a un pubblico femminile. Una modifica alle casse dei punti di vendita consente la lettura dei coupon direttamente dallo smartphone, l’identificazione della cliente e la registrazione dei suoi comportamenti d’acquisto. Un’iniziativa che integra quindi comunicazione, promozioni, localizzazione geografica, retail e data mining, offrendo vantaggi un po’ a tutti i player. Il modello di business di Sparkfly, infatti, si basa su un fee compreso tra il 2 e il 5% della transazione realizzata. Gli editori che abbinano alle proprie comunicazioni pubblicitarie anche un coupon dell’inserzionista possono spuntare un 20% in più sui listini della display advertising. Il distributore attrezzato con la tecnologia alle casse per dialogare con gli smartphone vede incrementare il traffico nel punto di vendita. L’azienda inserzionista crea un continuum tra la comunicazione e l’atto d’acquisto.
Un altro esempio è rappresentato da Starcom MediaVest, che ha stretto una collaborazione con lo startup di New York PlaceIQ per dimostrare che la pubblicità su smartphone e tablet serve a creare traffico nei negozi. E quindi a vendere. Il nuovo indicatore si chiama Place Visit Rate e correla il numero di utenti di smartphone e tablet raggiunti dalla comunicazione pubblicitaria che veicola una promozione a quello degli effettivi visitatori di un punto di vendita in zona. I dati sono forniti a PlaceIQ da partner, editori e network pubblicitari. Nel momento in cui una pubblicità “in-app” è indirizzata attraverso un network, questo assegna allo strumento mobile una stringa di numeri e lettere univoci per identificarlo in modo anonimo. E attraverso il gps e la stringa si può comprendere se il telefono si è davvero spostato nel negozio reclamizzato, precedentemente mappato da PlaceIQ.
In Inghilterra, invece, Adpoints ha stretto un’alleanza con Nectar per offrire una piattaforma di loyalty basata sulla pubblicità, che offre agli spettatori incentivi e premi se guardano e interagiscono con i video pubblicitari on line. I punti si guadagnano assistendo all’intero video, rispondendo a semplici questionari sulla pubblicità o la marca, ma anche cliccando sull’indirizzo del sito dell’azienda o della marca. Attraverso l’ingegnoso sistema gli investitori pubblicitari possono misurare i classici parametri di base dell’efficacia di una campagna: ricordo, notorietà di marca, atteggiamenti e intenzione d’acquisto. Oltre a disporre del profilo degli spettatori e del numero dei click-through. Il test, effettuato nel corso del 2012 su un campione di titolari di tessera Nectar, è stato estremamente positivo. Ha visto infatti un 73% di essi attivi ogni mese, con una media di 61 view ciascuno. Il 57% ha fatto almeno un click per cercare altri prodotti, il 34% alla ricerca di offerte, il 24% per avere informazioni sui prezzi, il 19% per comunicare con la marca e, infine, il 17% per cercare dove acquistare i prodotti.
Il che pare dimostrare che la gente non odia le marche, e forse neanche la pubblicità. Oggi, tuttavia, è più consapevole del proprio valore e, se può, cerca di accedere a una fetta della torta degli investimenti pubblicitari condizionando la propria attenzione a degli incentivi promozionali.
Insomma, la situazione è ricca di sfaccettature e piuttosto complessa, anche se sembra di poter dire che il below the line rappresenta un prezioso supporto nell’evoluzione del mercato pubblicitario degli anni 2000. Il quale a sua volta si può rivelare una fonte di sviluppo del fatturato per la comunicazione e i mezzi non classici, in una logica di investimenti di marketing sempre più coordinati.
Ma, siccome il mondo è bello perché è vario, chiuderei con una notizia che fa sorridere, in quanto paradossale. Infatti AdBlock, la molto discussa estensione del browser che consente di eliminare le pubblicità dai siti web, si sta preparando a lanciare una campagna di comunicazione classica, finanziata con i 55.000 dollari raccolti attraverso una sottoscrizione tra gli utenti. L’applicazione, già distribuita a 80 milioni di persone, viene scaricata almeno 100.000 volte al giorno. Nata come un fenomeno di nicchia, per addetti ai lavori, si è diffusa grazie al passaparola in rete, attraverso i classici meccanismi del marketing virale. L’obiettivo ora è di aumentarne la notorietà presso il grande pubblico. E, per farlo, cosa di meglio che investire sui mezzi classici, proprio come il New York Times, che dovrebbe ospitarla su una pagina intera?
Filippo Genzini
Ho sempre lavorato nel settore dei servizi innovativi di marketing per le aziende del largo consumo e - in particolare - del retail, sia sul fronte della marketing intelligence sia su quello della comunicazione, con una focalizzazione sull’approccio customer centric. Hobby prediletti: la scrittura e la musica. genzini@admirabilia.it www.ilcommissariozarotti.com