Quanto conta l’identità personale in internet? Se guardiamo a quello che succede nella vita quotidiana, ci rendiamo conto che è importante stabilire con certezza l’identità di una persona per far nascere stabili relazioni sociali. Ma in rete le cose cambiano: qui l’identità personale non è affatto un elemento indispensabile per “esistere”. Il luogo comune vuole che la realtà del web sia virtuale, cioè non reale. Nelle chat e nei forum i partecipanti possono esprimere le loro opinioni utilizzando pseudonimi, false identità o rivendicando il diritto all’anonimato. Tutto questo nella vita reale sarebbe guardato con sospetto e riprovazione. Di solito chi si camuffa nasconde qualcosa. Nei casi più gravi il codice penale considera reato la falsa dichiarazione sull’identità o su qualità personali. In internet invece questo tipo di condotta non solo è tollerata, ma è considerata uno dei modi possibili attraverso i quali entrare in contatto con gli altri.
Molti ricorderanno che qualche anno fa era stato inventato un nome, Luther Blisset, da utilizzare convenzionalmente per creare una sorta d’identità collettiva dietro la quale nascondersi. Come mai questo nella rete viene accettato, mentre nella vita concreta è rifiutato? Le ragioni, di ordine psicologico e culturale, sono varie. Il diritto a restare anonimi trova una sua motivazione forte nel desiderio di sfuggire alle forme di controllo totale, rese possibili dalla tecnologia. Molti vedono nell’anonimato un rimedio a quella che definisco la “sindrome di Orwell”, intesa come timore che ogni azione nella rete sia monitorata da un Grande Fratello. Inoltre, assumere un’identità differente da quella reale risveglia l’attore nascosto che c’è in noi e può essere divertente. Questo era evidente nei primi anni di sviluppo della rete, quando prevaleva l’aspetto virtuale delle relazioni che viaggiavano online. Ma oggi internet non è più uno strumento per comunicare all’interno di una comunità ristretta di “iniziati”. Il web è usato per distribuire prodotti e servizi, per concludere contratti e per svolgere attività che hanno impatto sulla vita reale. In questo ambito le ragioni del diritto tornano pesantemente a far sentire la loro voce e l’identità personale riacquista la funzione centrale che le compete nei rapporti giuridici. Questo non vuol dire che l’anonimato debba essere bandito dalla rete, senza eccezioni. L’unico limite è, come sempre, quello del rispetto della buona fede altrui. Peraltro, da giurista, devo segnalare che ormai hanno pieno valore legale alcuni strumenti in grado d’identificare in modo certo le persone online. Penso alle varie tipologie di firma elettronica avanzata e al Sistema pubblico di identità digitale (il cosiddetto Spid), la soluzione che permette di accedere a tutti i servizi online della pubblica amministrazione con un’unica identità digitale (username e password) utilizzabile da computer, tablet e smartphone. È solo questione di tempo, ma ho l’impressione che tra breve l’epoca dell’anonimato in rete resterà solo un ricordo del passato e lo spazio per chi non vuole rivelare la sua identità quando è online sarà sempre più limitato.
Marco Maglio
Avvocato in Milano, nel 2001 ha fondato lo Studio Legale Maglio & Partnes che fin dalla sua costituzione fornisce assistenza legale specialistica a primarie aziende nazionali e a Gruppi multinazionali, ad Enti pubblici e ad Organizzazioni non profit nell’ambito della data protection, dell’adozione di modelli organizzativi e di codici etici, del diritto del marketing, della prevenzione delle pratiche commerciali scorrette nella comunicazione commerciale interattiva, nel commercio elettronico, nel telemarketing e nelle vendite dirette. Nel 2002 ha fondato Lucerna Iuris, network giuridico formato da legali di tutti i paesi dell’Unione Europea esperti di questioni di privacy, marketing e di comunicazione.