Può esistere una relazione tra la biologia e il marketing? Visto che la seconda disciplina attinge sempre di più alla terminologia della prima? Basti pensare al famoso concetto del “ciclo di vita” del prodotto per convenire che la struttura logica della biologia ha, effettivamente, qualcosa da trasferire all’arte codificata di porre e mantenere nel mercato prodotti e servizi.
La biologia, però, non si limita a spiegare le funzionalità e le caratteristiche fisiologiche dei singoli esseri viventi; si occupa anche e soprattutto dell’ambiente e delle condizioni che permettono il perdurare della vita dei suoi vari soggetti. Basterebbe citare i programmi di ricerca delle esplorazioni dello spazio. Il primo quesito che si pongono gli esobiologi è: “esistono le premesse ambientali per lo sviluppo di qualche forma di vita?” Lo studio dell’ambiente, dunque, è una premessa necessaria per ogni approccio che voglia definirsi scientifico.
Il marketing è, da questo punto di vista, metodologicamente carente. Lo testimonia il fatto che Nielsen documenta da tempo, sistematicamente, che 8 innovazioni su 10 falliscono in breve tempo. Ovvio dedurre, allora, che 8 brillanti idee su 10 (a priori sono, infatti, tutte brillanti!) non sono state calate nell’ambiente adatto a riceverle. Una spiegazione consiste nel fatto che, nato per rispondere alle esigenze delle prime grandi imprese produttrici di beni di consumo di massa, il marketing ha conservato quest’impronta. È come se la zoologia, nata dallo studio dei grandi animali erbivori e felini, si fosse fermata lì e applicasse il suo sapere anche al micromondo dei roditori e, più giù, degli insetti e degli invertebrati.
Abbiamo già sottolineato la diversa interpretazione da dare a due indicatori fondamentali: la distribuzione ponderata e quella numerica. La prima costituisce l’informazione essenziale per i grandi brand multinazionali, in quanto individua la capacità di sviluppare volumi da parte della distribuzione. Le aziende oligopolistiche sono, infatti, in grado di controllare e condizionare il processo distributivo, attraverso massicce dosi di pubblicità e promozioni (effetto pull sulla clientela dei supermercati). Al contrario, le piccole marche vivono di penetrazione numerica, poiché debbono costruirsi un’identità, devono farsi notare ed essere presenti, anche in piccole quantità, in quanti più luoghi d’acquisto sia possibile e, soprattutto dovrebbero contare sull’aiuto del trade per essere conosciute (effetto push sulla clientela). Un ambiente piccolo, con poche referenze, le aiuta, al contrario dei megastore stipati di merci.
Cercheremo di dimostrare, allora, che per la stragrande maggioranza dei prodotti che non appartengono alla ristretta élite delle mega o global brand vigono altre regole, altri condizionamenti e, dunque, altre strategie di adattamento e di sviluppo, e lo faremo partendo proprio dall’ambiente. L’ambiente è determinante si è detto. È per questo che il team Amagi, senza voler insegnare il mestiere ad alcuno, si è dato la regola di dedicare mezza giornata, ogni settimana, alla periodica, sistematica esplorazione dei super e ipermercati delle 17 insegne che operano all’interno di un “triangolo” dell’hinterland milanese, densamente popolato. In altre parole basta un biotopo ideale per osservare i primi passi, la diffusione e l’eventuale scomparsa di centinaia e centinaia di prodotti e marche, che tentano d’insediarsi nel loro habitat ideale: la foresta pluviale o (se vi piace di più il vecchio nome sanscrito) la jungla della distribuzione moderna; il luogo dove si decide il destino di molti progetti, a priori tutti bellissimi.
Un osservatorio semplice, come quello descritto, è in grado di fornire delle diagnosi indiziarie rapide e indiscutibili. Vale a dire, se un nuovo prodotto non riesce ad attecchire e a sopravvivere in quel triangolo milanese iperdenso di insegne e di famiglie di tutti i ceti, ritenete che abbia maggiori chance di successo a Ladispoli, a Fabriano o a Benevento? Armati di pazienza si può comprendere, pertanto, quale diffusione seguono prodotti relativamente nuovi come Spadelliamo di Agnesi, Ortolina Piccante di Rodolfi, i Legumotti Barilla, le Torte Tre Marie di Galbusera, le Soupercups di Cupscom e le altre centinaia di prodotti che tentano di colonizzare quest’area della jungla distributiva.
Vittime del quantitativismo imperante, i manager pensano di poter trarre deduzioni corrette affidandosi soltanto alla raccolta di numeri (preziosi, per carità!). Faticano però a integrarli con l’osservazione diretta. Eppure i numeri devono sempre e comunque essere supportati dal buon senso. E il buon senso nasce anche e soprattutto dalla capacità di osservare e poi di razionalizzare ciò che si osserva. Alexander Fleming corroborò i suoi ragionamenti partendo da un fatto banale; notò che una cultura di penicillium era sparita nelle vicinanze della muffa di un’arancia marcia, e ne trasse le deduzioni scientifiche, che lo portarono a conce- pire i primi antibiotici.
Il culto delle metriche, invece, è un modello culturale diventato onnipresente negli ultimi decenni, come scrive Jerry Z. Muller; un culto che travolge una gamma di istituzioni sempre più ampia. A seconda del gusto, si potrebbe definire un “meme” culturale, un “épistème”, un “discorso”, un “paradigma”, un “sistema retorico autorinforzante” o semplicemente una moda. Viene divulgato con un proprio vocabolario. Influisce sul modo in cui le persone parlano del mondo, e quindi su come pensano il mondo e su come agiscono in esso. Per comodità, chiamiamola la fissazione per la metrica.
Insomma, in un mare di chiacchiere e di numeri, emerge determinante un assioma indiscutibile: è la qualità e la tenuta della tua distribuzione a decidere il destino della tua marca. Tutto il resto è importante, ma non così importante.
Aggiungiamo che, oltre a tenere sotto controllo realtà come il nostro triangolo milanese, una visita periodica all’Iper Tosano, a Orzinuovi (Bs), è quanto mai istruttiva. Essendo questa catena una delle poche che, in Italia, pratica la gestione della cosiddetta “coda lunga” degli assortimenti, il ricercatore può percepire e cogliere quale sia la numerosità di marchi e prodotti che le varie industrie sono in grado di mettere sul mercato e poi di fare fallire, 8 volte su 10.
Da queste poche frasi, si può cogliere la differenza rispetto alle considerazioni udite così spesso in tanti convegni. Il marketing non è una scolastica fondata sui testi dei grandi pensatori, che hanno già scritto e detto tutto, a uso e consumo dei discepoli. Non s’impara all’università, e men che meno nei convegni, che pur è doveroso frequentare entrambi diligentemente. Il marketing si apprende osservando, criticamente e instancabilmente, i luoghi in cui si organizza la presentazione e la vendita di tutto ciò che la tanto biasimata società dei consumi offre con abbondanza crescente. Questo è il motivo per cui è lo studio dei flop e non l’apologia dei pochi casi di successo, la fonte di apprendimento dalla realtà: uno spunto di riflessione per tanti sociologi del consumo, esperti di strategie, pubblicitari creativi, che sembrano non rendersi conto che (evocando il buon Marshall MacLuhan) “è il negozio e non più il mezzo a essere il messaggio”.